martes, 31 de agosto de 2010

un mapa para perderse











Enjoy yourself, take only what you need from me.
MGMT


Anoche soñé con vos y pensé que de verdad habría que tenerle más respeto a los fines. La mañana es un momento positivo para decidir el fin de algo, ya que ahí es donde todo comienza. El día. Nosotros en el. Es inevitable.


Sé que te voy a volver a ver cruzándote en alguna calle por ahí (solo así tendrá sentido) y en mi imaginación nos estamos mirando esperando que pase algo parecido a lo que ya conocemos. Por eso estamos perdidos. No reconocemos nada, no hay nada que se parezca a lo que hubiéramos dibujado confiando en nuestra memoria alcohólica compartida. Ya no te reconozco porque quiero ver algo que solo existió por el tiempo que tardaste en darte cuenta de que era mejor dejarlo y arrepentirse.

Trago mi café con leche y de todo esto que fuimos voy a retener un solo recuerdo. (Así viajaré ligera.)

Elijo una noche, cuando nos perdimos caminando en una ciudad anónima y desierta y sin embargo el mundo se nos habría adelante como un invito, por metáforas aun incomprensibles o laberintos de gestos y palabras. Un mapa donde tachar de rojo un recorrido random, donde se desconocen dirección y destino pero who cares, en ese momento solo nos importaba caminar. Siempre pensé que uno nunca podría perderse caminando. Pero estaba muy equivocada.

miércoles, 25 de agosto de 2010

Llevense lo que quiero








No hay manera de seguir siendo uno mismo. Y aun así, es tan difícil aceptar el fin. Desprenderse.

Ayer me fui de Buenos Aires.

No había forma de encerrar 3 años en 25 kg de valija, entonces reuní a mis amigos y les dije llévense lo que quieran. Puse una playlist muy dance y fue claro que las despedidas no tienen por qué ser tristes. Debería pasar lo mismo con los funerales: entiérrenme y pongan d.a.n.c.e. de Justice, bailen hasta el atardecer tomando tinto y contando historias que compartimos. Ríanse. Pero antes es preciso aceptar el desapego, tener alrededor nuestro menos gravedad que nos ate a la tierra y más respeto por el fin.

Imagino que despedirse cada cinco meses desde hace años baje un poco la intensidad de los adioses. No puedo recordar la cantidad de veces que repetí el trayecto Buenos Aires-Ezeiza-Buenos Aires, y el Terminal A me es familiar como el kiosquero de la esquina y los cachafaz de maicena, algunas librerías de la calle Corrientes o el chino de abajo.

Creo que extrañaba mas cuando no me había ido todavía. No sé si voy a echarte de menos, pero quiero. Tal vez es por eso mismo que me voy. Es difícil querer de cerca. Pensaba en eso dejando Buenos Aires, pero me di más cuenta de lo que significaba cuando volví al lugar que llamé casa por mucho tiempo.

Ahora tomo mi café posta con medialunas truchas y mi valija semivacía es una señal de algo que me gusta y no domino todavía. Creo que la voy a dejar así, lista para el otro adiós que me espera este sábado, de vuelta en aeropuerto, rumbo a Barcelona.

martes, 24 de agosto de 2010

Il rispetto delle forme

http://cargocollective.com/tupeq/574192/Uniones-y-separaciones



Uniones y separaciones: almas que se juntan
y son una constelación que canta
por una fracción de segundo en el centro del tiempo,
mundos que se dispersan como los granos de la granada
que se desgrana en la hierba.
Octavio Paz, Arenas Movedizas

IT IS HEROIC TO TRY TO STOP TIME
Jenny Holzer




In genere smettiamo di ripeterci la domanda come un mantra nel momento in cui iniziamo a dare per scontata la risposta. Il passaggio in cui tutto comincia a manifestarsi in maniera diversa è un movimento impercettibile, un luogo che è non-più e non-ancora al tempo stesso. Interi mondi nascono e muoiono intorno a noi in estremo silenzio, continuamente. Cosa c’è lì in mezzo, tra il prima e il dopo? Un innocuo nulla? Pura sospensione? Un vuoto d’aria? Ci piace dare nomi, crediamo nel loro potere. Se posso chiamarti per nome significa che ti ho riconosciuto in mezzo al resto, che ho pensato al tuo movimento e ai tuoi confini, che hai qualcosa da raccontarmi ed è probabilmente quello che ho bisogno di sapere adesso.
Alessandra l’ha chiamato punto neutro.
Quando ho visto i palloncini sollevare la coperta ho pensato che stesse cercando di fermare il tempo. Quanta umanità c’è dentro questo tentativo? Quanta bellezza nasce dai tentativi di detenere qualcosa? A volte ho l’impressione che l’essenza dell’arte somigli allo sforzo di fermare il movimento per un attimo o almeno rallentare il suo corso il tempo necessario per dargli un volto. Dargli un nome.
I palloncini sollevano la coperta soltanto per un po’, finché l’elio non si disperde nell’aria e il suo peso diventa insostenibile. E’ un ciclo di vita che si svolge e chiude con una certa onestà nei confronti dell’esistenza stessa. Di quest’oggetto non resterà altro che un’immagine in movimento e forse un ricordo o una parola, una testimonianza diversa che dilata la sua vita e lo avvicina all’eternità senza raggiungerla.
Interrogarsi sulla dinamica del processo significa osservare il punto neutro e dare forma alla sua manifestazione altrimenti impercettibile. Significa credere che una forma speciale di risultato stia già nella direzione con cui si tende verso qualcosa e, se il tempo è davvero tutto quello che abbiamo, allora la strada che prendiamo è più importante della destinazione cui forse arriveremo (o forse no. Solo il tempo potrà dirlo, il che ci riporta alla casella uno.)
Per Alessandra l’opera stessa è il processo con cui giunge al risultato. O quasi.
C’è molta forza espressiva, ma anche una grande semplicità nella sua ricerca. Sa che l’equilibrio è un’immagine essenziale e sintetica, e non azzarda una risposta sul ciclo di vita, ma pone una domanda cui tutti dovremmo rispondere da soli per sentirci più sereni davanti alla sua fine.
Lavoisier ci ha insegnato che nulla si crea e nulla si distrugge, ma tutto si trasforma solamente e, aggiungerei, questa trasformazione è necessaria perché nulla nell’universo è preservabile in eterno nel suo stato attuale. Ogni cosa porta in sé il prologo della fine. Ma quel che più conta è che, a tutto questo, segue sempre un nuovo inizio.




L’equilibrio è il luogo che attraversi prima di lasciarti cadere in un estremo



Ogni città riceve la sua forma dal deserto a cui si oppone.
Italo Calvino, Le città invisibili


Possiamo pensare a una piuma o un palloncino gonfio d’elio come metafore della leggerezza. Li immaginiamo sollevarsi trascinati dalla corrente, leggeri come l’aria che li trasporta e disperde lì dentro la loro debole gravità. Eppure basta legarli insieme con un filo sottile per pietrificarli e trasformarli in un unico corpo inchiodato a terra che si trascina a rallenty con un peso che non sembra essere il suo, ma quello dell’intera fatica universale quando si trova a lottare contro una condizione che non le appartiene.
Che peso è questo? Ricorda un flirt confuso o un amore impossibile, quando ognuno si appoggia a una speranza che l’altro non sa di condividere.
Il filo che li unisce li trasforma in una metafora della sospensione, in un punto neutro in cui non succede niente (niente di tutto ciò che conosciamo e chiamiamo per nome) e il tempo si ferma per permetterci di osservare e interrogarci sulla sua natura. Se c’è così tanta fatica in quel movimento è perché il passaggio non avviene senza che entrambi i corpi (o il prima e il dopo) oppongano tutta la resistenza di cui sono capaci. Ogni cambiamento genera una certa tensione. La dicotomia del trattenere e lasciare andare. Del conservare o distruggere. La natura del mondo si trova spesso in questa condizione transitoria.
Possiamo considerarlo un punto di equilibrio? Cosa significa?
E’ facile abbandonarsi, lasciarsi cadere in una delle due voragini: basta sospendere ogni resistenza e lasciare compiere il suo lavoro alla forza dominante. Invece l’equilibrio è un punto di pura sospensione in cui si lotta affinché nessuna delle due forze coinvolte prevalga. E’ una forma di resistenza estrema e una condizione precaria, fugace. Mantenerla, anche solo per un attimo, richiede uno sforzo enorme.
L’equilibrio è un luogo di transizione in cui potremo fermarci solo per un attimo.
Poi ci si lasceremo cadere.




L’osservazione come intervento e l’equilibrio come armonia



El respeto a las formas - decía Wen Tsi -
no es tanto la conservación de lo mismo
como la observancia del ritmo con que lo mismo
adopta formas diversas.

César Aira, Una novela china

LETTING GO IS THE HARDEST THING TO DO
Jenny Holzer


L’osservazione non è un atteggiamento passivo, al contrario. E’ una forma d’intervento rispettoso, che non rompe l’armonia della metamorfosi, ma la rallenta solamente il tempo necessario per poterla osservare e magari comprendere. C’è addirittura chi sostiene che l’acqua impieghi più tempo per raggiungere il suo punto di ebollizione se qualcuno la osserva.

Cos’è l’armonia assoluta? Ci dovrà essere un gran caos speculare, perché si manifesti? E’ presuntuoso credere che le manifestazioni dell’armonia assoluta generino il movimento unisono degli elementi. Forse è solo un modo per proteggerci perché sappiamo che il loro contraccolpo – la fine - sarà uno spaventoso attimo di silenzioso e buio niente.
Nell’armonia assoluta si manifesta un equilibrio che vorremmo dominare, dilatare, e in quel momento siamo così ansiosi di conservarlo da non ricordare che questa condizione si raggiunge quando si lotta col suo contrario e che, annullando questa premessa, anche il risultato che perseguiamo smette d’esistere. L’armonia è un movimento unisono ma, quando finisce, ogni elemento prosegue per la sua strada. C’è temporalità anche nell’armonia assoluta e non c’è ragione di mantenere in vita una cosa morta. E’ più saggio imparare a mollare la presa e lasciare andare, nonostante letting go sia the hardest thing to do. Fermare la fine è un movimento maldestro e sconfortante. E’ un atto violento e debole, quindi vano.
Le opere di Alessandra sono metafore della sospensione, del punto neutro che fa raggiungere agli oggetti, dell’equilibrio. Sono un’immagine dell’armonia estrema, un elegante still del punto di transizione tra una condizione e la seguente, sono quello che accade tra una fine e il suo nuovo inizio.


Buenos Aires, 20 Agosto 2010


http://cargocollective.com/tupeq/587152/TEXTOS

jueves, 19 de agosto de 2010

il migliore dei mondi impossibili






pic di fra vicenzi


Iniziare a riesumare aneddoti con un “Ti ricordi quella volta che?” con te non serve. Scuoti la testa da vecchio rimba e hai già rimosso le nostre storie per far spazio ad altro. Anche a me succede lo stesso, sai? Forse viviamo troppo in fretta per ricordare . I dettagli, soprattutto.

Stavamo bevendo vino tinto nella tua ultima casa di Bologna, quella in cui raccoglievate i capelli e la sporcizia solo quando formavano enormi balle che veleggiavano nel corridoio. C’era pure una tua opera d’arte sulla parete, un cartellone bianco con uno spermatozoo dal volto familiare che incitava i passanti a esprimere la loro creatività, ma che rimase più o meno intatto (credo ci mettesse in soggezione).

Apriamo il vino rosso mentre cucini una pasta a quel-che-trovo-in-casa, tua specialità di sempre. Il tema del giorno era la scelta. L’impulso. Dove ti porta tutto questo quando sei così masochista da autoflagellarti costantemente perché temi la felicità più dello spleen, ma in fondo ami lamentarti aspettando che il tempo passi e ti dia nuove ragioni per continuare, immutabile. Mi lanci una di quelle occhiate dei bambini quando stanno per fare qualcosa di cattivo e lo sanno. La conosco. Mi piace.

“Per esempio, io ora voglio lanciare un piatto!” – dici, e con me hai terreno fertile perché sono sempre dalla parte dell’impulso più stupido.

“Allora fallo!” – rispondo ancora affacciata alla cucina da cui, presumibilmente, partirà il volo.

“Levati!” - Mi sposto di qualche centimetro e non mi lasci nemmeno il tempo di sparire dalla porta, vedo il piatto volare e precipitare, sento quei microsecondi in cui guardiamo la sua traiettoria con un peso infinito, che non è il loro, non è il peso del tempo di volo, ma quello delle parole nel piatto.

Se è questo il miglior mondo possibile, lo è soltanto perché non ci è dato conoscerne altri. Lo vedo schiantarsi e frantumarsi in pezzi ordinati sul pavimento.

Il caos è un disegno sensato, dopotutto. Brindiamo coi nostri rossi e, non so perché, entrambi abbiamo la sensazione di aver riportato un po’ d’ordine intorno.