jueves, 15 de julio de 2010

no wonder mi regalano manzanas










pic | autostop por la panamericana 2009

Nella mia personale lotta contro la gravità, ho imparato che l’arte di ridurre all’essenziale si traduce in un accurato raggruppamento del superfluo. Così ho impacchettato alcuni anni in casse pesanti e li ho spediti indietro nel tempo, ho iniziato a prendere aerei verso un emisfero in cui l’inverno non si manifesta sette mesi l’anno e il cielo fa un minimo sforzo per mantenere il suo colore. E’ troppo facile sentirsi soli dall’altra parte del pianeta, quando si vive con una valigia perennemente aperta ai piedi del letto e sempre meno cose da infilare. Penso che da fuori sia facile invidiare vite come questa, e che io stessa devo averlo fatto in qualche momento, se ora sono qui.


Così, riducendo la pic ai minimi termini, ho pensato:

uno scappa dalla routine perché è convinto che la vita in capital letters stia nel continuo cambiamento, ma risulta che è facile diventare dipendenti da certe autoconcessioni e da questa forma un po’ isterica di fluire. Se questo tizio trova il modo di routinizzare il cambiamento, cosa gli resta? Nemmeno il privilegio di sognare con le immagini perché può viverle da dentro con un click su lastminute.com, e saperlo rende il mondo esperibile troppo aperto e insufficiente.

Da dove si ricomincia a cambiare? Sceglie un pattern a caso e lo ripete in loop? Inizia a vivere-da-persona-normale? C’è una fregatura, in tutto questo, e lui lo sa ma non la vede.

He can’t see the forest through the trees.

Se avesse potuto fare come gli altri l’avrebbe fatto fin dall’inizio, ma non può. Porta addosso la sua condizione come un brutto neo o un’aritmia, o il tatuaggio di un nome da rimuovere. Con docile accettazione, e quell’automatico senso di appartenenza che provoca il tempo quando passa. Non gli è dato scegliere. Gli è dato abbandonarsi alla sua predestinazione, ma questa è la massima autodeterminazione cui può ambire.

Come sempre accade, queste domande si riveleranno inutili perché la realtà finirà per essere un’altra cosa.

Restare nella square one fin dall’inizio è una pessima soluzione. Ci dovrà pur essere una differenza, tra chi non si è mosso e quelli come lui, che tornano alla prima casella dopo aver saltellato per tutta la tabella. Avranno un diverso grado di coscienza, voglio sperare, e qui mi afferro al fatto che chiunque sia convinto di aver ragione quando difende il proprio modo di vivere.

jueves, 1 de julio de 2010

The Appleguy (posso frignare cinque minuti?)







Se dovessi scegliere oggi la mia offerta, qualcosa di abbastanza piccolo da poter entrare in una bustina di plastica trasparente che lascerei alla Terra prima di andarmene, sceglierei l’involucro delle decine di alfajores che fagocito ogni tanto per compensare il vuoto di autostima che m’infondi, e almeno un tuo stupido bigliettino in cui, senza una parola, riesci a inchiodarmi al tavolo per un’analisi semiotica e la sua ovvia deriva in una pura speculazione.

Sei semplicemente doloroso. Da ammettere, soprattutto.

Ti voglio bene solo perché ho imparato ad amare lo schifo che mi fai sentire addosso.

Ho già deciso che i tuoi obiettivi ti rendono una brutta persona, e so che mento, ma la costruzione mentale che ho di te è la mia più grande opera d’arte, così continuo questo dialogo perverso col tuo fantasma vivo. In realtà sono sola. E’ che la tua esistenza non mi basta. Non mi basta il tuo modo di esistere perché quello che ho inventato per te è un mondo migliore.

Se soltanto il silenzio non fosse questa corda che ci unisce.

Ho bisogno di credere che la sensibilità che sto crescendo dentro sia una direzione. Ho bisogno di credere che un orientamento e il tempo servano a qualcosa.

Forse il fatto che tu non mi capisca è chiave in questo. Se mi avessi conosciuta in qualche punto d’arrivo, la tua vita senza me ti sarebbe sembrata inconcepibile.

Ci vorrà più tempo, ma vedrai che arrivo. E dove sarai tu in quel momento?

Sicuramente altrove.