jueves, 30 de diciembre de 2010

Todavía no había pasado nada, y sin embargo ya me estaba adelantando la agonía del post, las consecuencias de la entrega completa a la Intensidad, al viejo carpe diem, a esas actitudes que en el momento te sientan bárbaro, pero luego el efecto se termina y quisieras apretar fast forward, taparte los ojos para no ver lo que sigue o rebobinarlo todo y volverlo a vivir una vez y otra, hasta darte cuenta de que te estás perdiendo el presente entre tanto loop de pasado, entonces sentirte estúpido por haberte quedado tanto en una dimensión irreal, y no te darás cuenta de que estás otra vez equivocado, el error en el error como una matrioska de equivocaciones, porque en ese sueño está la semilla de algo que – si no es real –al menos es más sincero, aunque cueste creerlo, darle una forma.

Es que mientras sueño estoy viviendo el pico máximo de realidad. Cuando me entrego a la ausencia de consecuencias y me armo un pasado que amaré recordar en futuro (ese presente que luego odiaré vivir) y sin embargo sé que vale más este deslice de un extremo a otro que la lenta deriva hacia el centro, hacia el elogio mismo de la nada o esas formas de irrealidad o ausencia que llamamos seguridad, estabilidad, equilibrio.

Nunca quise entregarme a una vida de planta. Tal vez por esto no sé como terminar el día, y menos aún esta frase.

Pero está claro que el final llega trágico porque el comienzo es tan violento y total, ya que con este pretexto de la intensidad terminamos agotando todo en el preámbulo, incluyendo el epilogo en la introducción porque algo (¿una delicada forma de arrogancia?) nos sugiere que ya conocemos la historia, que vale más leer la primera y la ultima página y usar el tiempo que nos queda para ir a tomar vino en un bar del barrio.

Y sin embargo el contenido no son los hechos, sino los detalles y la forma, probablemente la manera misma de contar la historia, y eso lo estamos perdiendo por apuro. Vivimos con el mantra hay tiempo y atravesamos el día a día apretando skip the intro hacia el final. Como si fuera eso lo importante.

jueves, 23 de diciembre de 2010

Lui fa il sostenuto perchè è questo il suo dovere ma ieri ha quasi pianto mentre camminava per strada sotto la pioggia fine, con una musica triste nelle orecchie e troppi accordi minori underneath the chilly grey november sky. Gli è venuto in mente all’improvviso – si era promesso di non pensarci, concentrarsi su altro, ma queste cose sono cosí, guardi di lato e ogni faccia, ogni pietra, ogni atomo ti riporta dritto verso il centro – ci ha pensato come qualcosa di altamente improbabile, e chissà perchè ha ricordato la consistenza dei suoi capelli. Ha provato a ricostruire il suo odore e non c’è riuscito, ha provato a visualizzare il suo corpo ma è emerso un collage di antiche associazioni e vecchi personaggi, finchè ha provato a ricostruire i suoi movimenti ed ecco un saluto troppo lungo l’ultima volta che si erano visti, un abbraccio al lato di un semaforo che diventò verde, poi rosso, poi verde, poi rosso di nuovo. Non sapeva che sarebbe stata l’ultima. Cos’avrebbe fatto se l’avesse saputo? Probabilmente avrebbe stretto piú forte cosí l’avrebbe persa piu in fretta, invece l’aveva lasciata andare convinto che il giorno dopo, o quello dopo ancora (è stato lí, sul SI minore di Wendy’s going to die, che ha sentito un occhio liquefarsi, ma il tutto è durato il tempo di un cambio di accordi, poi si è ricomposto e ha continuato a camminare)

martes, 21 de diciembre de 2010

) (

C’è un momento - un luogo della mente o una dimensione che si apre solo per un istante, come lo Stargate, e non puoi nemmeno scegliere se attraversarlo o no perchè ti muovi su un tappeto rotante, o forse è soltanto la terra intera che avanza tutta insieme con noi sopra, e a pensarci bene non è nemmeno la terra ma il tempo, e pare ci sia sempre un prima e un dopo ma io ho scelto di non credere nel tempo lineare, per me non ci dovrebbe essere né prima né dopo ma soltanto una lenta metamorfosi uniforme e radicale, un eterno mutare che avanza come un organismo coordinato, un animale con un cervello diverso in ogni cellula e – nonostante questo – riesce a camminare, pensa cose sensate, è piú della somma delle sue parti il tutto senza essere cosciente del suo mutare o del tempo, della trasformazione. Respira, certo, ma non c’è volontà nella sua ricerca d’aria. Lo fa come una pianta, perché-è-cosí-che-deve-andare, libero dal peso della consapevolezza, libero dal bisogno di spiegarsi e spiegare, di inventare parole e lingue per verbalizzare quello che trova quando si guarda dentro, spiegarlo agli altri organismi come lui, similissimi e diversi, tutti uniti dai sensi – sempre meno affidabili, sempre meno persistenti - e dalle parole – sempre meno esatte, sempre meno .

Ma c’è un momento – questo è innegabile, sottile, di un’evidenza perversa – in cui tutto ciò che conosci smettere di essere ciò che era, ciò che fu, diventa ciò che è, almost ciò che sarà, e il punto non è vivisezionare il percorso per piantare una bandierina sulla soglia di passaggio, il punto è sapere della nostra cecità assoluta mentre lo stiamo attraversando, capire che siamo sotto lo Stargate e quando saremo giunti dall’altra parte tutto quello che abbiamo conosciuto e capito e amato avrà smesso di essere come l’abbiamo conosciuto e capito e amato – e allora ci sarà un attimo di smarrimento prima di guardarci intorno e tornare a conoscere e capire e amare di nuovo, e cosí ad libitum, hasta que se nos acabe el tiempo, finchè non ci saranno piú Stargate da attraversare o mondi nuovi – nuove configurazioni di mondi antichi, da imparare e in cui credere.

sábado, 18 de diciembre de 2010

silence is sexy

Esta enfermedad de hablar mucho sin decir nada. Cada situación en la que te metés, cada charla, cada discusión, cada explicación conlleva la necesidad de usar miles y miles de palabras para dar forma a una ausencia - precisamente la ausencia de lo que se quiere poner en palabras, como si al decirlo se activara su presencia - y al final no decir nada sin llegar a la nada misma, a una forma pura de ausencia, sino quedándose en la repetición de un tentativo (el mismo y no a la vez) como un loop de acciones para intentar llenar-el-vacío, y sin embargo no hay vacío tout court, a lo mejor sólo hay miedo al vacío y - más acá - nosotros, asíncronos y desafinados, cumpliendo el esfuerzo constante para ser entendidos como queremos, pero luego hay infinitos registros y orejas y niveles y matices, además de líneas de aire a los lados de tu cabeza y un reloj atado a la muñeca.

La mejor solución es el silencio.
(O el chocolate amargo)

subte babasónico

Quanta magia sulla metro, quando ascolti in cuffia la tua canzone preferita del giorno e di colpo il tipo seduto a fianco a te, parlando col vicino, inizia a battere le mani a tempo, senza saperlo.

Es decir, la persona in questione sa che sta battendo le mani a tempo, ma le sfugge quale sia il tempo. Saperlo è certamente qualcosa di cui può fare a meno, ma io ora?
Cosa me ne faccio di questa sincronia?

Saberlo entenderlo decirlo. Et voilà la verità.

"Olvidemos todo de una vez.
Hagamos un trato que podamos sotener, al menos un rato."

sábado, 11 de diciembre de 2010

La lentitud com un estar en les coses per assumir-ne encara mès el ritme

E' che mi permetto uno stand-by, ma non sono sicura di saper vivere cosí.
Ci vuole abilità. Pazienza, soprattutto.

In questo periodo (un periodo in cui mi faccio rubare ogni cosa e riesco a perdere un aereo arrivando all'aeroporto 3 ore prima del volo) si mormora una legge che regola gli opposti. Piacere e dolore sono direttamente proporzionali. Per il Buonsenso la vita è un'operazione a somma zero, in cui l'intera gamma del sentire ripiega su un equilibrio nel centro, dove non esistono picchi né baratri ma solo trasparenza e silenzio, solo quiete.

E' una di quelle speculazioni con cui anem tirant, non c'è modo di dimostrarlo. Eppure non mi stupirei se tra 5 o 50 anni ci attaccassero cavi e sensori e spine alle tempie e ai polsi al momento della nascita, e misurassero cosí questo equilibrio emozionale, +1 per il "bene", -1 per il "male" e cosí via fino alla morte (lenta e dolorosa: -1) o al suicidio (razionale, sereno, ragionato: +1) per vedere se realmente la lancetta torna sullo zero.
Ma quante dimensioni esistono tra lo 0 del punto e l'1 della linea? Elevare la variabile a un numero "con la virgola" non può rappresentare la crescita di un albero? Perchè vene e rami e fiumi si somigliano? Riusciremo a metterci d'accordo su cosa sia il bene e cosa il male?
Forse finalmente le dicotomie ci staranno strette e manderemo tutto all'aria.
Le spine, i cavi, il buonsenso, e questa tragica ricerca di equilibrio.

Ieri ero seduta al bar, scrivevo. A fianco a me la frase
"La lentitud com un estar en les coses per assumir-ne encara mès el ritme"

martes, 7 de diciembre de 2010

Hay que reinstalarse en el presente.

Un poco como el silencio de toda la música, y la verdad que te habla al oído cuando no intentás buscar el orden, el desorden, cuando vivís sin intentar explicarlo todo, todo el tiempo, y andas por la calle mirando para arriba y sintiéndote más liviano cuando una hoja de otoño cae volando en círculos y se te pega a la cara.

Con un reloj atado a la muñeca, todo puede ser increíblemente siniestro.

Me contás la historia de tu vida y no le veo nada tuyo ahí, nada exclusivo, hay como una liviana universalidad en tu mundo que es todos los mundos, en tu presente que es todos los presentes.
L'assenza. Lavorare intorno all'assenza. Costruire intorno all'assenza. L'assenza come centro e motore, la ausencia en todas sus formas, en todos sus perfiles, en todas esas caras que pasan a los lados de tu cabeza y desvanecen, cerca y lejos al mismo tiempo.
La cagada es que no nay nada más mentiroso que la sinceridad, sometimes.

Y esta necesidad de escaparse de los racionalismos, de los reduccionismos, de los ismos, la tentativa de devolver al mundo su complejidad ¿No será en sí una admisión de debilidad? ¿La declaración de una carencia? ¿Un manifiesto de la ausencia?

Por supuesto, si no te sacás la hoja de los ojos te vas a tropezar con algo en cualquier momento. Y sin embargo, el mundo que se abre con la ceguera es otra mirada, otra historia. Vos mismo, sos otra persona. No sé si llamarla "identidad", hoy me gustan las cosas light y la identidad me espanta, me acuerda de DNI y pasaportes y denuncias de robo y colas infinitas en las oficinas públicas. Es peso, gravedad. Pero hay algo ahí. Una de esas cosas que las palabras pulverizan si intentan definirlo, algo que solo nos permite acceder tangencialmente, livianamente.

martes, 26 de octubre de 2010

(altre misure del tempo)

No estábamos enamorados, hacíamos el amor con un virtuosismo desapegado y critico, pero después caíamos en silencios terribles y la espuma de los vasos de cerveza se iba poniendo como estopa, se entibiaba y contraía mientras nos mirábamos y sentíamos que eso era el tiempo.
Julio Cortazar, Rayuela





(io non bevo birra, la odio, ma la guardo, mi piace pensare alla schiuma che si spegne come a una misura del tempo che si consuma o un cronometro dimenticato, e noi lì, appollaiati sul bancone di qualche bettola del barrio – insieme, adesso - è tutto impercettibilmente più vicino alla sua fine, ma tu mi guardi e anche lo spazio che ci unisce si è dilatato o diviso in una crepa immaginaria che è come Shibboleth nella Turbine Hall, e nessuno sa perché ma il tempo ha cambiato qualcosa, il tempo è cosi, ti censura il trucco e scopre un corpo a metà o un coniglio - non è magia - e il processo ci è sfuggito perciò è un casino interpretare il risultato, ma c’è qualcosa di chiaro in tutto questo - è prestigio - qualche debole evidenza di un bianco malaticcio in micromovimenti di autoannullamento, il mio tinto ancora pieno e, secondo me, quando i tuoi occhi si saranno abbassati e anche tu capirai la forma del tempo e dell’oblio, non ci sarà più ragione per tornare a guardarsi oppure chiedersi se magari, aspettando ).

sábado, 9 de octubre de 2010

"People look like they are dancing before they love"


Qué quería decir Jenny Holzer? Ni idea, pero estoy de acuerdo. Las pistas de baile son lugares de soledad, y toda esa gente es una mentira. Es de cartón. Buscas una cercanía cualquiera entre centenas de decibel en el aire - algo que se parezca al amor vacío de las noches sin deseos duraderos - pero no hay nada más que movimientos de plástico y puro pensamiento, aquello que querías poner en stand-by cuando cerraste la puerta de casa.

¿Como se baila esto? ¿Es importante? ¿Qué estamos haciendo exactamente?

El gran dilema de cómo-mover-los-brazos. Si sos ridículo es porque dudas, sabés, el miedo es una garantía de fracaso. Estás tan conciente de vos mismo que no te vas a reconocer en ningún otro lado.

Así te trasladas a la barra y empiezas a tragar cubatas y delirio alternativamente. En cuarenta minutos la conciencia es un recuerdo, las siluetas alrededor se animan, la música te cuenta algo que necesitas. Seguís solo pero ya no importa, te olvidaste, y mañana habrás olvidado que olvidaste, despertarás cuando la luz se habrá ido para el otro lado recordando sueños o imágenes o imaginarás recuerdos o habrás vivido sueños. Es igual? Que todo haya cambiado no significa que haya alguna diferencia. Si el recuerdo de una imagen es una imagen, y el recuerdo de una sensación es una sensación, el recuerdo de un recuerdo no puede ser un recuerdo. Y así, en loop. Qué quería decir Jenny Holzer? Ni idea, pero estoy de acuerdo.

martes, 31 de agosto de 2010

un mapa para perderse











Enjoy yourself, take only what you need from me.
MGMT


Anoche soñé con vos y pensé que de verdad habría que tenerle más respeto a los fines. La mañana es un momento positivo para decidir el fin de algo, ya que ahí es donde todo comienza. El día. Nosotros en el. Es inevitable.


Sé que te voy a volver a ver cruzándote en alguna calle por ahí (solo así tendrá sentido) y en mi imaginación nos estamos mirando esperando que pase algo parecido a lo que ya conocemos. Por eso estamos perdidos. No reconocemos nada, no hay nada que se parezca a lo que hubiéramos dibujado confiando en nuestra memoria alcohólica compartida. Ya no te reconozco porque quiero ver algo que solo existió por el tiempo que tardaste en darte cuenta de que era mejor dejarlo y arrepentirse.

Trago mi café con leche y de todo esto que fuimos voy a retener un solo recuerdo. (Así viajaré ligera.)

Elijo una noche, cuando nos perdimos caminando en una ciudad anónima y desierta y sin embargo el mundo se nos habría adelante como un invito, por metáforas aun incomprensibles o laberintos de gestos y palabras. Un mapa donde tachar de rojo un recorrido random, donde se desconocen dirección y destino pero who cares, en ese momento solo nos importaba caminar. Siempre pensé que uno nunca podría perderse caminando. Pero estaba muy equivocada.

miércoles, 25 de agosto de 2010

Llevense lo que quiero








No hay manera de seguir siendo uno mismo. Y aun así, es tan difícil aceptar el fin. Desprenderse.

Ayer me fui de Buenos Aires.

No había forma de encerrar 3 años en 25 kg de valija, entonces reuní a mis amigos y les dije llévense lo que quieran. Puse una playlist muy dance y fue claro que las despedidas no tienen por qué ser tristes. Debería pasar lo mismo con los funerales: entiérrenme y pongan d.a.n.c.e. de Justice, bailen hasta el atardecer tomando tinto y contando historias que compartimos. Ríanse. Pero antes es preciso aceptar el desapego, tener alrededor nuestro menos gravedad que nos ate a la tierra y más respeto por el fin.

Imagino que despedirse cada cinco meses desde hace años baje un poco la intensidad de los adioses. No puedo recordar la cantidad de veces que repetí el trayecto Buenos Aires-Ezeiza-Buenos Aires, y el Terminal A me es familiar como el kiosquero de la esquina y los cachafaz de maicena, algunas librerías de la calle Corrientes o el chino de abajo.

Creo que extrañaba mas cuando no me había ido todavía. No sé si voy a echarte de menos, pero quiero. Tal vez es por eso mismo que me voy. Es difícil querer de cerca. Pensaba en eso dejando Buenos Aires, pero me di más cuenta de lo que significaba cuando volví al lugar que llamé casa por mucho tiempo.

Ahora tomo mi café posta con medialunas truchas y mi valija semivacía es una señal de algo que me gusta y no domino todavía. Creo que la voy a dejar así, lista para el otro adiós que me espera este sábado, de vuelta en aeropuerto, rumbo a Barcelona.

martes, 24 de agosto de 2010

Il rispetto delle forme

http://cargocollective.com/tupeq/574192/Uniones-y-separaciones



Uniones y separaciones: almas que se juntan
y son una constelación que canta
por una fracción de segundo en el centro del tiempo,
mundos que se dispersan como los granos de la granada
que se desgrana en la hierba.
Octavio Paz, Arenas Movedizas

IT IS HEROIC TO TRY TO STOP TIME
Jenny Holzer




In genere smettiamo di ripeterci la domanda come un mantra nel momento in cui iniziamo a dare per scontata la risposta. Il passaggio in cui tutto comincia a manifestarsi in maniera diversa è un movimento impercettibile, un luogo che è non-più e non-ancora al tempo stesso. Interi mondi nascono e muoiono intorno a noi in estremo silenzio, continuamente. Cosa c’è lì in mezzo, tra il prima e il dopo? Un innocuo nulla? Pura sospensione? Un vuoto d’aria? Ci piace dare nomi, crediamo nel loro potere. Se posso chiamarti per nome significa che ti ho riconosciuto in mezzo al resto, che ho pensato al tuo movimento e ai tuoi confini, che hai qualcosa da raccontarmi ed è probabilmente quello che ho bisogno di sapere adesso.
Alessandra l’ha chiamato punto neutro.
Quando ho visto i palloncini sollevare la coperta ho pensato che stesse cercando di fermare il tempo. Quanta umanità c’è dentro questo tentativo? Quanta bellezza nasce dai tentativi di detenere qualcosa? A volte ho l’impressione che l’essenza dell’arte somigli allo sforzo di fermare il movimento per un attimo o almeno rallentare il suo corso il tempo necessario per dargli un volto. Dargli un nome.
I palloncini sollevano la coperta soltanto per un po’, finché l’elio non si disperde nell’aria e il suo peso diventa insostenibile. E’ un ciclo di vita che si svolge e chiude con una certa onestà nei confronti dell’esistenza stessa. Di quest’oggetto non resterà altro che un’immagine in movimento e forse un ricordo o una parola, una testimonianza diversa che dilata la sua vita e lo avvicina all’eternità senza raggiungerla.
Interrogarsi sulla dinamica del processo significa osservare il punto neutro e dare forma alla sua manifestazione altrimenti impercettibile. Significa credere che una forma speciale di risultato stia già nella direzione con cui si tende verso qualcosa e, se il tempo è davvero tutto quello che abbiamo, allora la strada che prendiamo è più importante della destinazione cui forse arriveremo (o forse no. Solo il tempo potrà dirlo, il che ci riporta alla casella uno.)
Per Alessandra l’opera stessa è il processo con cui giunge al risultato. O quasi.
C’è molta forza espressiva, ma anche una grande semplicità nella sua ricerca. Sa che l’equilibrio è un’immagine essenziale e sintetica, e non azzarda una risposta sul ciclo di vita, ma pone una domanda cui tutti dovremmo rispondere da soli per sentirci più sereni davanti alla sua fine.
Lavoisier ci ha insegnato che nulla si crea e nulla si distrugge, ma tutto si trasforma solamente e, aggiungerei, questa trasformazione è necessaria perché nulla nell’universo è preservabile in eterno nel suo stato attuale. Ogni cosa porta in sé il prologo della fine. Ma quel che più conta è che, a tutto questo, segue sempre un nuovo inizio.




L’equilibrio è il luogo che attraversi prima di lasciarti cadere in un estremo



Ogni città riceve la sua forma dal deserto a cui si oppone.
Italo Calvino, Le città invisibili


Possiamo pensare a una piuma o un palloncino gonfio d’elio come metafore della leggerezza. Li immaginiamo sollevarsi trascinati dalla corrente, leggeri come l’aria che li trasporta e disperde lì dentro la loro debole gravità. Eppure basta legarli insieme con un filo sottile per pietrificarli e trasformarli in un unico corpo inchiodato a terra che si trascina a rallenty con un peso che non sembra essere il suo, ma quello dell’intera fatica universale quando si trova a lottare contro una condizione che non le appartiene.
Che peso è questo? Ricorda un flirt confuso o un amore impossibile, quando ognuno si appoggia a una speranza che l’altro non sa di condividere.
Il filo che li unisce li trasforma in una metafora della sospensione, in un punto neutro in cui non succede niente (niente di tutto ciò che conosciamo e chiamiamo per nome) e il tempo si ferma per permetterci di osservare e interrogarci sulla sua natura. Se c’è così tanta fatica in quel movimento è perché il passaggio non avviene senza che entrambi i corpi (o il prima e il dopo) oppongano tutta la resistenza di cui sono capaci. Ogni cambiamento genera una certa tensione. La dicotomia del trattenere e lasciare andare. Del conservare o distruggere. La natura del mondo si trova spesso in questa condizione transitoria.
Possiamo considerarlo un punto di equilibrio? Cosa significa?
E’ facile abbandonarsi, lasciarsi cadere in una delle due voragini: basta sospendere ogni resistenza e lasciare compiere il suo lavoro alla forza dominante. Invece l’equilibrio è un punto di pura sospensione in cui si lotta affinché nessuna delle due forze coinvolte prevalga. E’ una forma di resistenza estrema e una condizione precaria, fugace. Mantenerla, anche solo per un attimo, richiede uno sforzo enorme.
L’equilibrio è un luogo di transizione in cui potremo fermarci solo per un attimo.
Poi ci si lasceremo cadere.




L’osservazione come intervento e l’equilibrio come armonia



El respeto a las formas - decía Wen Tsi -
no es tanto la conservación de lo mismo
como la observancia del ritmo con que lo mismo
adopta formas diversas.

César Aira, Una novela china

LETTING GO IS THE HARDEST THING TO DO
Jenny Holzer


L’osservazione non è un atteggiamento passivo, al contrario. E’ una forma d’intervento rispettoso, che non rompe l’armonia della metamorfosi, ma la rallenta solamente il tempo necessario per poterla osservare e magari comprendere. C’è addirittura chi sostiene che l’acqua impieghi più tempo per raggiungere il suo punto di ebollizione se qualcuno la osserva.

Cos’è l’armonia assoluta? Ci dovrà essere un gran caos speculare, perché si manifesti? E’ presuntuoso credere che le manifestazioni dell’armonia assoluta generino il movimento unisono degli elementi. Forse è solo un modo per proteggerci perché sappiamo che il loro contraccolpo – la fine - sarà uno spaventoso attimo di silenzioso e buio niente.
Nell’armonia assoluta si manifesta un equilibrio che vorremmo dominare, dilatare, e in quel momento siamo così ansiosi di conservarlo da non ricordare che questa condizione si raggiunge quando si lotta col suo contrario e che, annullando questa premessa, anche il risultato che perseguiamo smette d’esistere. L’armonia è un movimento unisono ma, quando finisce, ogni elemento prosegue per la sua strada. C’è temporalità anche nell’armonia assoluta e non c’è ragione di mantenere in vita una cosa morta. E’ più saggio imparare a mollare la presa e lasciare andare, nonostante letting go sia the hardest thing to do. Fermare la fine è un movimento maldestro e sconfortante. E’ un atto violento e debole, quindi vano.
Le opere di Alessandra sono metafore della sospensione, del punto neutro che fa raggiungere agli oggetti, dell’equilibrio. Sono un’immagine dell’armonia estrema, un elegante still del punto di transizione tra una condizione e la seguente, sono quello che accade tra una fine e il suo nuovo inizio.


Buenos Aires, 20 Agosto 2010


http://cargocollective.com/tupeq/587152/TEXTOS

jueves, 19 de agosto de 2010

il migliore dei mondi impossibili






pic di fra vicenzi


Iniziare a riesumare aneddoti con un “Ti ricordi quella volta che?” con te non serve. Scuoti la testa da vecchio rimba e hai già rimosso le nostre storie per far spazio ad altro. Anche a me succede lo stesso, sai? Forse viviamo troppo in fretta per ricordare . I dettagli, soprattutto.

Stavamo bevendo vino tinto nella tua ultima casa di Bologna, quella in cui raccoglievate i capelli e la sporcizia solo quando formavano enormi balle che veleggiavano nel corridoio. C’era pure una tua opera d’arte sulla parete, un cartellone bianco con uno spermatozoo dal volto familiare che incitava i passanti a esprimere la loro creatività, ma che rimase più o meno intatto (credo ci mettesse in soggezione).

Apriamo il vino rosso mentre cucini una pasta a quel-che-trovo-in-casa, tua specialità di sempre. Il tema del giorno era la scelta. L’impulso. Dove ti porta tutto questo quando sei così masochista da autoflagellarti costantemente perché temi la felicità più dello spleen, ma in fondo ami lamentarti aspettando che il tempo passi e ti dia nuove ragioni per continuare, immutabile. Mi lanci una di quelle occhiate dei bambini quando stanno per fare qualcosa di cattivo e lo sanno. La conosco. Mi piace.

“Per esempio, io ora voglio lanciare un piatto!” – dici, e con me hai terreno fertile perché sono sempre dalla parte dell’impulso più stupido.

“Allora fallo!” – rispondo ancora affacciata alla cucina da cui, presumibilmente, partirà il volo.

“Levati!” - Mi sposto di qualche centimetro e non mi lasci nemmeno il tempo di sparire dalla porta, vedo il piatto volare e precipitare, sento quei microsecondi in cui guardiamo la sua traiettoria con un peso infinito, che non è il loro, non è il peso del tempo di volo, ma quello delle parole nel piatto.

Se è questo il miglior mondo possibile, lo è soltanto perché non ci è dato conoscerne altri. Lo vedo schiantarsi e frantumarsi in pezzi ordinati sul pavimento.

Il caos è un disegno sensato, dopotutto. Brindiamo coi nostri rossi e, non so perché, entrambi abbiamo la sensazione di aver riportato un po’ d’ordine intorno.

jueves, 15 de julio de 2010

no wonder mi regalano manzanas










pic | autostop por la panamericana 2009

Nella mia personale lotta contro la gravità, ho imparato che l’arte di ridurre all’essenziale si traduce in un accurato raggruppamento del superfluo. Così ho impacchettato alcuni anni in casse pesanti e li ho spediti indietro nel tempo, ho iniziato a prendere aerei verso un emisfero in cui l’inverno non si manifesta sette mesi l’anno e il cielo fa un minimo sforzo per mantenere il suo colore. E’ troppo facile sentirsi soli dall’altra parte del pianeta, quando si vive con una valigia perennemente aperta ai piedi del letto e sempre meno cose da infilare. Penso che da fuori sia facile invidiare vite come questa, e che io stessa devo averlo fatto in qualche momento, se ora sono qui.


Così, riducendo la pic ai minimi termini, ho pensato:

uno scappa dalla routine perché è convinto che la vita in capital letters stia nel continuo cambiamento, ma risulta che è facile diventare dipendenti da certe autoconcessioni e da questa forma un po’ isterica di fluire. Se questo tizio trova il modo di routinizzare il cambiamento, cosa gli resta? Nemmeno il privilegio di sognare con le immagini perché può viverle da dentro con un click su lastminute.com, e saperlo rende il mondo esperibile troppo aperto e insufficiente.

Da dove si ricomincia a cambiare? Sceglie un pattern a caso e lo ripete in loop? Inizia a vivere-da-persona-normale? C’è una fregatura, in tutto questo, e lui lo sa ma non la vede.

He can’t see the forest through the trees.

Se avesse potuto fare come gli altri l’avrebbe fatto fin dall’inizio, ma non può. Porta addosso la sua condizione come un brutto neo o un’aritmia, o il tatuaggio di un nome da rimuovere. Con docile accettazione, e quell’automatico senso di appartenenza che provoca il tempo quando passa. Non gli è dato scegliere. Gli è dato abbandonarsi alla sua predestinazione, ma questa è la massima autodeterminazione cui può ambire.

Come sempre accade, queste domande si riveleranno inutili perché la realtà finirà per essere un’altra cosa.

Restare nella square one fin dall’inizio è una pessima soluzione. Ci dovrà pur essere una differenza, tra chi non si è mosso e quelli come lui, che tornano alla prima casella dopo aver saltellato per tutta la tabella. Avranno un diverso grado di coscienza, voglio sperare, e qui mi afferro al fatto che chiunque sia convinto di aver ragione quando difende il proprio modo di vivere.

jueves, 1 de julio de 2010

The Appleguy (posso frignare cinque minuti?)







Se dovessi scegliere oggi la mia offerta, qualcosa di abbastanza piccolo da poter entrare in una bustina di plastica trasparente che lascerei alla Terra prima di andarmene, sceglierei l’involucro delle decine di alfajores che fagocito ogni tanto per compensare il vuoto di autostima che m’infondi, e almeno un tuo stupido bigliettino in cui, senza una parola, riesci a inchiodarmi al tavolo per un’analisi semiotica e la sua ovvia deriva in una pura speculazione.

Sei semplicemente doloroso. Da ammettere, soprattutto.

Ti voglio bene solo perché ho imparato ad amare lo schifo che mi fai sentire addosso.

Ho già deciso che i tuoi obiettivi ti rendono una brutta persona, e so che mento, ma la costruzione mentale che ho di te è la mia più grande opera d’arte, così continuo questo dialogo perverso col tuo fantasma vivo. In realtà sono sola. E’ che la tua esistenza non mi basta. Non mi basta il tuo modo di esistere perché quello che ho inventato per te è un mondo migliore.

Se soltanto il silenzio non fosse questa corda che ci unisce.

Ho bisogno di credere che la sensibilità che sto crescendo dentro sia una direzione. Ho bisogno di credere che un orientamento e il tempo servano a qualcosa.

Forse il fatto che tu non mi capisca è chiave in questo. Se mi avessi conosciuta in qualche punto d’arrivo, la tua vita senza me ti sarebbe sembrata inconcepibile.

Ci vorrà più tempo, ma vedrai che arrivo. E dove sarai tu in quel momento?

Sicuramente altrove.

martes, 29 de junio de 2010

***












inciampando
sui tuoi passi
sono caduta
fuori dal mondo

tropezandome
en tus pasos
me cai
fuera del mundo


martes, 22 de junio de 2010

BIOdegradante










pic di LI PO


Dopo 27 traslochi su due continenti, innumerevoli lavori di cui vado più o meno fiera, viaggi in autostop per l’America Latina con camioneros paraguayos e 529 amici su feisbuc, devo comunque ammettere – dolorosamente -che la mia vita è estremamente noiosa sulla carta.


Per insondabili ragioni (un probabile lavoro in un probabile futuro, di cui mantengo un silenzio scaramantico), mi è stato chiesto di scrivere la mia biografia. In inglese, pergiunta.

E mi sono depressa.

Provate.

Mettete la vostra vita nero su bianco pensando a un lettore sconosciuto e chiedetevi cosa vorreste far risaltare di voi, della vostra personalità, del vostro mundo interior, come chiamano qua – molto rispettosamente -le seghe mentali. Io non ce l'ho fatta. Ho buttato giù una bozza, cancellato, bevuto un mate, riscritto, cancellato, otro mate riscritto cancellato riscritto e cosí via, in un loop senza conclusione che ha prodotto la bellezza di 10 righe in un intero pomeriggio.

Alla fine, stremata dalla mia incapacità di prendere decisioni durevoli (nell’ordine di secondi o minuti), mi sono arresa a un copiaincolla del cv con l’aggiunta di qualche cazzata autoindulgente. Ma poi ho pensato che è anche giusto regalarsi un po’ di meritata autocommiserazione, quando la lista di eventi elencati e non del nostro primo quarto di secolo fa prevedere un coerente sequel di totale solitudine alla Ally McBeal, se vogliamo, Bridget Jones o Carrie Bradshaw e non so quién más. Con la ancor più deprimente postilla che loro nella realtà non esistono, e persino nella fiction sono donne di successo strapagate, mentre la sottoscritta non ha studiato legge o giornalismo e arranca con due pseudolavori in total black, facendo (gratis) il lavoro che le piace nel tempo libero. Per la gloria.

.

Come disse Fabri Fibra in una canzone che questa settimana è la mia colonna sonora:

se avessi fatto il corso di farmacia /

A quest'ora avrei una laurea e comunque sia /
dimmi quanti laureati hanno la garanzia /
di non finire lavapiatti in pizzeria


Eh?

Aggrappandomi all’endemica ipocondria che mi caratterizza, ho deciso di concludere con la mia data di morte e, misteriosamente, sembra l’unica cosa autentica (forse un po’ grottesca) dell’intera pagina!