viernes, 4 de diciembre de 2009

peces fantasmas se deslizan fosforecen huyen













Sapevo che non sarei dovuta venire qui. E’ un cubo di vetro e aria in cui nuotiamo come piccoli pesci fantasma che fuggono dove il battito è lento e batte un oblio senza eco alcuno. Mi gridano alll’orecchio basta ma è un sussurro, versano altro tinto in un bicchiere pieno e mi ripeto resistere resistere come un mantra, resistere resist finchè mi passi a fianco come un’ombra, resistere re mentre mi sfiori con le tue ali nere e qualcosa dentro va in frantumi, il rosso ghiacciato nel mio sangue o forse l’eccesso di adrenalina quando si mescola a un piccolo oblio volontario.

jueves, 3 de diciembre de 2009

non so cosa farmene del futuro e del presente ancora meno








Perché mai dovrebbe essere folle preoccuparsi di godere sempre il più possibile dell’unico, sicuro presente, se la vita intera altro non è che un frammento più grande di presente, e come tale assolutamente transeunte?

Schopenhauer, L’arte di essere felici


E’ così difficile trovare adesso la voglia di fare tutte quelle cose che immaginiamo dovremmo star facendo per arrivare dove crediamo di voler arrivare, in un futuro che non ci dà garanzia alcuna, né del nostro risultato né della coerenza nel continuare a volerlo, e ancor meno della sua esistenza. Il mio problema (uno dei) nella scrittura e nella vita “sono le unità minime”, come mi ricordò poche settimane fa qualcuno prima di annacquare l’ennesimo mate, distruggere l’ennesimo bicchiere e ribaltare l’ennesima bottiglia. Sarà, infatti in questo preciso istante mi sembra inconcepibile (inconcepibile è la parola) concentrarmi su qualcosa di sensato o coerente o giustificabile nel lungo termine, sento che vorrei stendermi in un parco a leggere e che domani vorrò fare lo stesso o suonare o scrivere o soltanto camminare e pensare, attività rigorosamente non capitalizzabili (o meglio: che io non posso capitalizzare, non adesso almeno, e molto probabilmente nemmeno in futuro). Io amo Schopenhauer, es mas, addirittura credo d’essere cresciuta col suo maledetto pendolo tra la noia e il dolore in mano, ma sulla questione del presente mi lascia un po’ perplessa, davvero. Ché sarà anche transeunte, ma se lo viviamo in questo modo presumibilmente arriveremo a una mezza età di rimpianti in cui non ci resterà che guardare indietro e pensare “io avrei potuto, se soltanto”, e questa pippa odierna l’ho resa meglio nella frase del post precedente, lo so, ma quel giorno sfogliavo Calvino e assimilavo il potere della sintesi, l’economia del linguaggio, mentre oggi è tornata la me prolissa e mi sento in vena si sviscerarlo e pensarlo e reiterarlo, con la consapevolezza che non serva proprio a niente, se non a ritardare il futuro e contaminare il presente, appunto.

Comunque sono sempre dell’idea che sia un nostro dovere prenderci il tempo di perdere il nostro tempo.

E soprattutto non so se voglio continuare a prendere consigli su come vivere da chi prima considera la vita come un pendolo tra la noia e il dolore e poi scrive un manuale su come essere felici!

miércoles, 25 de noviembre de 2009

non ho rispetto per la fine.













pic di alita tommasi


Io non ho rispetto per la fine.

Rimando a domani ma è già ieri e mi ripeterò che avrei potuto,
se soltanto.

domingo, 22 de noviembre de 2009

forse, eppure nonostante.










pic di cri voto


Era accaduto tempo prima, nessuno sa quando esattamente perché entrambi odiavano orologi e agende, e negli ultimi mesi il tempo aveva soffiato sui loro volti con velocità inconsueta, con un ritmo mai sperimentato prima. Si erano incontrati nell’ascensore, salendo al quarto piano della biblioteca con la prospettiva di una nottata studio last minute.

Primo piano – si guardano un istante - secondo piano - e succede tutto così in fretta da non lasciare il tempo di capire – terzo piano assente - com’è possibile che alla domanda “sali al quarto?” segua un bacio anonimo, perfetto come tutte quelle cose che la realtà accenna soltanto – quarto piano - e la mente completa in un disegno un po’ divino. La sua vita da allora era un’attesa costante in cui il tempo trascorreva solo durante i loro incontri, primo piano, per poi bloccarsi in un’impasse definitiva, secondo, e non c’era modo di risvegliarlo dalla sua paresi fantastica (terzo manca) dove tutto era soltanto desiderio di silenzio e solitudine, e la circolare volontà di mandare in loop quell’incontro nella memoria, il quarto piano, ancora una volta e una volta ancora fino a consumarlo saturarlo snaturarlo. Forse. Nonostante. Eppure.

(1) Non trascinare la catena di eppure e forse e nonostante via dal terreno materiale (2) e concentrati su ciò che è (--) fatti bastare la realtà concreta come spiegazione e dai l’unico senso plausibile alla sua immediata, definitiva sparizione. (4) Nulla di più complicato.

Eppure c’era stato un istante, e questo nessuno lo può negare, un primo istante in cui i loro mondi si erano unificati, un momento in cui l’origine di quella collisione era ancora da scoprire, da interpretare - sospensione - una domanda sul poi o soltanto un'idea, un dubbio, un attimo già proiettato in un futuro potenziale in cui forse sarebbe stato più logico e opportuno sedersi ad aspettare che la potenza diventasse atto o ripiegasse su se stessa scomparendo.

Ma lui aveva fretta, nonostante. E lei troppo, troppo tempo.

viernes, 6 de noviembre de 2009

to see a world in a grain of sand
and a heaven in a wild flower,
hold infinity in the palm of your hand
and eternity in an hour.

William Blake


Sarà la settimana di Aracne, dopotutto. L’abbiamo decretato di fronte a un mate pomeridiano nel cortile di casa, con un sole verticale che gridava l’opposto, gridava siesta, e noi succhiando erba liquida dalla bombilla intasata cercavamo di imporci l’azione in tutte le sue forme, la intervencion, il gusto amaro, Aracne che sfida una dea e sarà un ragno a vita per la sua arroganza, ma almeno ha vinto una perdita, almeno ha provato, ha agito.

Sono convinta che si debba mantenere un certo atteggiamento mentre ci si lancia. Non basta fare lo sforzo di, è molto più complesso. Un po’ come tirare un oggetto cercando di fare centro, l’atteggiamento sbagliato sta proprio lì, nel tentativo, perché è inutile cercare di, bisogna sapere che, lanciarlo con la consapevolezza della riuscita, io lo so, ora entra, senza mai perderla durante il lancio. Provate. Se il mondo è in ogni granello di sabbia e l’universo nel guscio di una noce, allora centrare la spazzatura col rotolo della carta igienica finita non sarà così diverso dall’ottenere un sì, una camminata insieme, poi magari un sì durante la camminata, una colazione sul tetto con mate e medialunas, un anello al dito e una tomba nella Chacarita.

martes, 27 de octubre de 2009

bloody sunday bloody









pic by natalia lipovetzky


Sì, dev’essere questa la ragione che ci unisce adesso, la nostra solitudine disarmata, la mancanza di un odio o un amore (ne abbiamo così bisogno), questo viscerale aggrapparci a una giovane amicizia tessendola con l’ordito delle assenze improvvise e la trama di un vuoto ancora umido. Restiamo così ore, condividendo qualcosa di un po' parziale e intenso al tempo stesso, stese come foglie cadute sul tetto di un enorme edificio proprio a fianco all’autostrada, fissando il cielo in movimento, ascoltando le auto in movimento – e noi lì, immobili – circondate da torri premature e grattacieli, una timida macchia color smeraldo in frammenti tra le costruzioni e un fiume blu che è quasi oceano lì dove la Città Infinita termina. L’orizzonte è un po’ il contorno della nostra immaginazione, borderline tra la realtà concreta e le continue supposizioni, loop di speranze e aspettative e speranze e aspettative e, un quadrato segreto di cemento rossastro e di assoluto e poi la lontananza, intorno, quel vuoto così palpabile che ci consuma la pelle come il sole zenitale all’ora della siesta.

Accompagna la mia notte nella 303, due poltrone e il vento, la mia perenne sigaretta spenta nel bicchiere di vetro e l’attesa che me lo dica – un po’ di speranza – la nitida consapevolezza che non abbia senso sperare perché è passato troppo tempo – eppure – il mio pendere da quel no che ancora non prende forma, i suoi giri di parole per non farmi male, la mia domanda diretta e quel bicchiere di veleno cosparso di miele lungo i bordi che mi fa bere mentre imbottisce i fatti per attutire la mia caduta, sospirando.

viernes, 23 de octubre de 2009

untitled









pic by yani szalkovicz


Io ho bisogno (bisogno di cosa? Bisogno di dare? Bisogno di riempire?), ho uno strano bisogno di ricerca e riempimento, e questa vita – il tempo - che mi scorre addosso in set sempre diversi è un pugno di sabbia che stringo forte forte fino a ridurre al nulla, non più il nulla di partenza forse, ma un nuovo nulla che giura di esser stato qualcosa, un tempo. Così lo scrivo, lo isolo dalla mente e lo butto nel mondo, un po’ lo perdo, lo rileggo a settimane o mesi o anni di distanza e - sì - sgomenta la tranquilla noncuranza che segue questa presa di coscienza assoluta, come vomitare nero esistenzialismo nei pensieri d'inchiostro e carta, poi chiudere il quaderno e continuare a vivere come se non l'avessi mai aperto.

martes, 20 de octubre de 2009

polvere













Emi solleva la testa, mi punta gli occhi contro e scuote bruscamente quella fitta palla di riccioli che si trova addosso per levarseli dal volto. Andre le ha appena rasato mezza testa e in controluce vedo una nuvola di polvere sottile ondeggiare nell’aria, seguendo i suoi movimenti. “Vuoi provare?” mi chiede. Non so se lo voglio. Ho appena premuto play su un disco di Autechre e si profila una notte davvero molto lunga, che m’incita a trasgredire le mie stesse regole, decisioni autoimposte anni prima con solida convinzione e argomenti che ora non riesco a ricordare. E’ sorprendente come nulla resista al tempo, nemmeno le più solide certezze, sempre ammesso che abbia senso credere in questo nome, e mentre passeggio lo sguardo sullo schermo del computer continuo a non rispondere. Forse non dovremmo fidarci del lungo termine perché è evidente che non esistiamo, lì dentro. “Allora, provi o no?” la sua impazienza è sempre maggiore ma cerco di non farci caso, di rifugiare questa momentanea indecisione nei bassi della minimal che riempie l’aria intorno. Lei mi guarda, aspetta che questo mio blackout si esaurisca, che una qualunque reazione prenda consistenza, e fa un po’ sorridere quella sua posa da bambina in attesa frenetica, gli occhi a palla mentre una me-sorella-maggiore decide se comprarle o no lo zucchero filato e cambiarle l’umore in un baleno. Lo specchietto quadrato su cui si sdoppiano le cinque strisce bianche gliel’ha regalato la madre alcuni anni fa, e a modo suo è un’immagine dolce perché sono quasi certa che Emi non abbia alba di come si disegni una linea di eyeliner sulle palpebre, forse non l’ha nemmeno mai fatto nel decennio che seguì le scuole superiori, quando era seminecessario e cool uniformarsi anche al bisogno di trasgredire. Posa lo specchietto e si alza bruscamente, stringe il mezzo Windsor della sua cravatta viola ed è perfetto, dopo tutte quelle ore di formazione davanti ai video di youtube alla ricerca del non plus ultra plastico del nodo, si rimbocca le maniche della camicia bianca da uomo piccolo e solleva i jeans chiari che le cadono lungo i fianchi stretti. Poi torna a sedersi e mi rivolge la stessa domanda, di nuovo. I bassi vibrano nei nostri sterni mentre l’eco delle sue ultime sillabe resta sospeso nel vuoto lasciato dalla musica, una melodia minore che si dissolve ad libitum tra l’armadio a cascata e le montagne di libri e vestiti disseminati sul pavimento, i cd scoperchiati, i nostri occhi che s’incrociano per un breve momento nel riflesso dello specchio tra le strisce e un istante di decisivo silenzio nell’attimo in cui termina il disco di Autechre. Non ho aperto bocca, ma Emi ha capito. Sorride beffarda, poi si pente e rettifica, rovescia la sua risata in una smorfia di tristezza e delusione fasulle poiché dovrà dimezzare il suo divertimento se intende condividerlo, ma taglia comunque un altro pezzetto della cannuccia che aveva tanto insistito per farsi regalare nell’ultimo bar, ore prima. Andre si sta facendo la doccia per levarsi di dosso la polvere dei suoi riccioli neri. Se n’è andato in mutande lasciandoci sole nella stanza, gridando dall’interminabile corridoio che avrebbe finito in cinque minuti. E’ passata almeno un’ora, credo, e forse non hanno più senso le lancette come riferimento stabile, ora che misuriamo il tempo in dischi e sigarette, esercizi di stile e vuoti a rendere di Quilmes che si accumulano in file disordinate sul pavimento di legno. Andre non sospetta che Emi. Andre non sospetta che io, soprattutto. Ho quasi dimenticato il mio sì quando mi porge la piccola cannuccia di plastica e lo rende reale, ricordandomi che c’è una conseguenza diretta per ogni risposta che tiriamo nel mondo superficialmente, che disegna timidamente i contorni di un futuro immediato seguendo uno solo degli infiniti percorsi possibili, una verità che ci definisce in quel momento soltanto, perché in quello dopo siamo semplicemente altro e, nonostante questo, tutto quel che segue dipende direttamente da ogni decisione che l’ha preceduto, come una goccia d’acqua che genera splendidi cerchi concentrici senza averlo deciso prima di cadere. Smettila cazzo che la vita è più semplice, mi dice spesso, nei momenti in cui il suo proverbiale autismo lascia spazio alla versione di lei che preferisco, ma entrambe sappiamo che mente, così m’infilo quella cosa plasticosa nel naso e osservo le briciole bianche scomparire rapide, aspirate da un enorme buco nero inciso nel mio riflesso, poi la striscia si esaurisce, resta soltanto una piccola costellazione di puntini raddoppiati dallo specchio e mi allontano, ingoio saliva e stelle finché la gola si anestetizza in una gommapiuma morbida e amarognola, in una normalità più lucida e concreta.

miércoles, 19 de agosto de 2009

dos incomunicados














A volte dimentico che questa è l’America Latina. A volte mi sento un po’ troppo disinvolta mentre cammino per le strade della Capital Federal senza guardarmi intorno, senza più spalancare gli occhi di fronte ai cartoneros e la miseria, normalizzando il set e in fondo assolvendo involontariamente il male con la mia endemica superficialità da classe media. A volte aspetto le 2 am per uscire di casa e camminare chilometri con la musica nelle orecchie, alienata da tutto, in direzione El Especial, piccolo bar clandestino che ospita interessanti feste da qualche settimana e che presumibilmente tra qualche settimana avremo già rimosso. A volte mi dimentico di vivere in Argentina (sarebbe diverso altrove? Forse, ma in ogni metropoli la storia si ripete) e m’intrappolo in un sottopassaggio, camminando veloce ma non abbastanza da evitare l’improvviso disegnarsi di un’altra ombra sulla parete bianca al mio fianco. I suoi contorni mi riesumano da un denso torpore musicale, come una violenta sveglia che ci catapulta fuori dalle lenzuola allo scadere della quarta ora di sonno, rapid eye movements arrestati e un sogno interrotto prima che possiamo immaginarne la fine, svegliati Vani, despabilate, riemergi dal tuo melodico buco nero e ricorda che questa è Buenos Aires, non la vecchia palude mantovana, apri gli occhi e preoccupati perché ti stanno aggredendo. Mi volto all’improvviso e un signore sulla quarantina (o sulla trentina portata pessimamente) si cimenta nel puntarmi meticolosamente una bottiglia rotta al volto, abbastanza vicino da impedirmi di guardarlo negli occhi e dedurre la serietà delle sue intenzioni. Devo addirittura spegnere la musica per ascoltarlo, i Quintorigo mi urlano nelle orecchie un messianico “…e poi fuggire” mentre il rumore del vetro in frantumi si mescola con gli archi e la polvere. “Dame el celular o te corto la cara”, mi disse, quasi strappandomi un sorriso. Se me l’avesse detto in italiano, “ti taglio la faccia”, mi sarei terrorizzata (brrr, ho i brividi solo a pensarlo), ma in castellano queste minacce hanno sempre un non so che di grazioso e purtroppo non riesco mai a prenderle sul serio. Immagino me ne pentirò il giorno in cui mi succederà qualcosa per davvero ma, fino ad allora, continuerò a prendermi un momento per riflettere prima di regalare a un estraneo i miei averi, senza contare che ciò che mi chiedeva, il cellulare, era sepolto in qualche profondo angolo del mio zaino stracolmo e avrei davvero dovuto svuotarlo sulla strada per trovarlo. Così, in un suo decisivo momento di distrazione, diedi retta ai Quintorigo e iniziai a correre sulle mie efficientissime gambe da ciclista full time, correre e correre ancora fino a smaltire l’adrenalina su tre chilometri di strada e poi rendermi conto che non aveva più senso prendere un taxi perché praticamente ero già arrivata.

Così, sudata e adrenalinica, sola e anticool, le calze completamente smagliate dalla corsa e un’apparizione anticipata nella notte porteña, arrivai a El Especial. Il tuo volto fu il primo che intravidi in fondo alle scale, con quella rugginosa barbina spelacchiata, un new look da hippy postmoderno e la fascia fluorescente tra i capelli semilunghi. Spettinato, pensai. Trasandato, corressi. Descuidado, tradussi, e la pista era vuota e non c’era modo di evitare una parola, un’occhiata, una vicinanza qualsiasi, ma continuai a mentirmi accumulando sinonimi in varie lingue finché non ti avvicinasti un po’ ballando un po’ ballonzolando, e allora cercai di recuperare la calma post-aggressione salutandoti con poca enfasi, forzando un sorriso, un abbraccio a maglie larghe e un hola urlato all’orecchio per coprire i 200 decibel di minimal techno intorno.

Bella pedalata per la city, ricordi? Mi devi ancora una reazione ma io non so aspettare e ho già un gomitolo di risentimento cautelare legato alle dita. La tua mano sul mio braccio passeggiò distratta in un movimento che tanto somigliava a una carezza, mentre mi chiedevi se mi sentivo ancora spaventata per l’aggressione, se andava tutto bene, io annuivo meccanicamente, ma l’adrenalina che mi aveva trascinato di corsa dall’oscura via alla festa ora sembrava solo un beato preambolo.

Nelle due ore seguenti feci il miracolo: imposi al mio cervello un corto circuito per evitare di fare quello che faccio sempre in questi casi, ovvero iniziare a dipendere da quel vitale rigor mortis e soprattutto dall’attesa, iniziare a dipendere dall’attesa che qualcosa accada mentre qualcosa è appena accaduto, e la notte si colori di aneddoti da raccontare alla carta, avida di subliminale come sono, da ripescare nelle tediose domeniche di solitudine e resaca e mandare in loop nel cervello come un placebo. Il loop, che pericolo. La dipendenza dall’attesa, dalla pura potenzialità. Balla balla e piensa, balla piensa e guarda fora, ballare ma essere altrove, o semplicemente non essere, stare in pura sospensione tra due attese insistendo con lo sguardo in quella direzione, elemosinando una parola, un incrociarsi di sguardi, di vite che ammetta che algo esta pasando, che qualcosa sta davvero accadendo e poi, inevitabilmente, accorgersi che non succede proprio niente.

L‘intensità con cui aspettiamo qualcosa è inversamente proporzionale alle probabilità del suo verificarsi - Murphy docet – e forse quella che chiamiamo Realtà non è altro che un Bignami dell’immaginazione.

Perciò ho ballato, osservato i bassi vibrare nel mio bicchiere di screwdriver e infilato l’attenzione in ogni dettaglio infinitesimale della pista, come m’insegnò Cortazar, scegliere un particolare qualunque purché insulso e perdersi lì dentro, lì dentro essere. Penso quindi sono. Pensare l’ossessione, ergo, non aiuta la calma a esistere.

La festa raggiunse il suo picco massimo, preludio di un inevitabile declino, così presi lo zaino e me ne andai. Era la mia firma, sparire sempre un istante prima dello shift verso la mattina e le crudeli luci al neon a svelare con violenza i resti della notte sui nostri volti. Diedi il mio addio serale ai neoamici di turno (con la coda dell’occhio ti vedevo infilarti nella tua giacca flower power) e mi allontanai verso l’uscita (eri dietro di me, per quanto ancora fingeremo il nulla?).

“Hey, ciao”, improvvisai con finta e malcelata sorpresa. Ci salutammo di nuovo con un abbraccio gemello della notte di Sendròs, quella in cui assassinai ogni eventuale sequel con un gesto che all’improvviso mi sembra così anticontemporaneo, Vani in diretta dal secolo decimo nono seminando letterine sulle bici di sconosciuti.

“Ti va di camminare?”, mi chiese e se ne andò senza aspettare la risposta, che forse era già incorporata in qualche cavillo semantico della domanda. Ormai non ho più vergogna da provare, ho come l’impressione di averla già vissuta tutta, ho alzato un muro intorno a questa sensazione, perciò riesco tranquillamente a fingere che nulla sia mai successo quando ci avviamo verso casa (ognuno verso la sua casa) fianco a fianco e il silenzio della città che dorme definisce all’improvviso il nostro dialogo.

“E’ stata davvero una bella pedalata, l’altro giorno” mi dicesti, lento e lapidario, lapidandomi con le parole lentamente e confessandomi il piacere di trovarlo e leggerlo, poi il silenzio e resistere e in fondo distinguere chiaramente un no in risposta a una domanda che non ho mai posto, un no zuccherato, mimetizzato tra elogi e ringraziamenti, un no argentino forse, un no che mi fai bere da un bicchiere cosparso di miele lungo i bordi ma pur sempre un no.

Et voilà, ecco la reazione che bramavo, come me la racconterò adesso per poterci credere di nuovo?

Mi abbracci ancora, il paradosso di quella stretta rende il tuo no davvero categorico, una bella pedalata, forse, ma questa è la realtà reale, pura negazione, e mi sussurra all’orecchio che posso solo concedermi alcuni istanti di fantasia letteraria in solitudine, da consumare nei tuoi abbracci terminali per poi stirarli all’infinito.

Come un placebo.

Il loop, che pericolo.

viernes, 14 de agosto de 2009

bella pedalata punto









Bella pedalata. Bella… Pedalata. Bella pedalata per la city. Che bella pedalata per la city. Linda pedaleada por la city. Vamos a dar un paseo en bici? Andiamo… Grazie per… E’ stato bello pedalare per la city. Eccetera. Mi esercito, voglio essere preparata quando arriverà il momento di.

Il fatto è che nessuno vede i retroscena, ma i retroscena esistono. Anche da piccola avevo l’amara impressione che il coniglio bianco fosse già nel cappello, che magari lo abitasse con la stessa claustrofobia con cui si abita un tunnel quando varchiamo la soglia di una nuova ossessione e trasferiamo lì dentro la nostra esistenza.

Mi giravi intorno studiandomi come un gatto, in silenzio, ed io speravo di aver esaurito le metafore zoologiche per potermi finalmente godere la mostra rotolandomi con un bicchiere di vino tinto tra i quadri, i sorrisi, la folla (ed eventualmente, la solitudine) imponendomi la tua non-esistenza. Presto scoprì che c’era dell’altro oltre alle animalesche figure retoriche, c’era quest’incondizionato calamitarsi a individuare le tue coordinate, istante dopo istante, ore cinque, ore dodici, e poi scoprirmi esaurita da me stessa, sentirmi un po' desamparada, esposta al mio tormento autoindotto da annegare nel rosso, nei sorrisi, nel mio cilindro da coniglio bianco e solo. Voglio essere preparata quando arriverà il-momento-di, ma quel momento non è ora, ora è il momento di andare.

Mi diressi verso l’uscita scendendo le immobili scale mobili, esaurendo un’adeguata contraddizione sotto i miei passi, ma una mano tesa indicò che andavamo nella stessa direzione e con lo stesso mezzo per giunta, lanciandomi quell’allusione addosso, l’amo cui avevo desiderato abboccare nelle mie ultime due ore di vita.

Allora vamos. Tanto il coniglio è già nel cappello.

E’ una strana strada quella che si consuma sotto le nostre ruote in direzione Microcentro, affiancati da 14 corsie di auto mentre gareggiamo a chi resta in equilibrio nel minor contatto possibile col mezzo, ora senza mani, ora senza piedi, ora facendo uno sforzo minimo per vederci da fuori e scoprire che, da fuori, siamo due piccoli disastri umani che emisferi e percorsi opposti hanno unito con ironia suprema, mentre ci sorridiamo e studiamo di nuovo, come gatti, in silenzio. Le 14 corsie della 9 de Julio attraversate senza mani fianco a fianco, bella pedalata, bella pedalata per la city, il coniglio che sbuca dal cilindro (voglio essere preparata) e quella sensazione quasi fisica di pura libertà nell’attimo in cui si fa coraggio e guarda fuori.

Mi assale la sensazione di aver vissuto troppo presente per una volta sola, mentre lego la bici al farol di turno ed entriamo in quella casa, in cui ci perdiamo definitivamente tra nuovi bicchieri di tinto, inediti sorrisi e una nuova folla. Prima di andarmene ti venni a cercare, era il momento di materializzarti addosso mio personale paradosso, palesarti la mia artificiale noncuranza nello sparire all’improvviso. Ti diedi un timido bacio sociale - nel mio emisfero non è un convenevole - e m’imprigionasti in un abbraccio imprevisto, ma durò un attimo di troppo, e furono falene di piombo nello stomaco, le tue mani addormentate sulla mia schiena per un secondo, forse, che la mente ha stirato all’infinito, e ancora una volta l’infinito, a pendere dal soffitto sulle nostre teste insieme alla scarpa da ginnastica, i fili colorati e il bastoncino del gelato. Una bella pedalata, proprio una bella pedalata…Voglio essere preparata.

Strappo una pagina del mio quaderno e scrivo, Bella pedalata per la city, cinque parole ovvie che nascondono un pomeriggio di composizioni, cancellature e ripetizioni in ogni possibile combinazione su fogli bianchi volanti, il tavolo e la mente riempiti di quel confuso e impietoso pensiero fisso, scriverenotaperesserepreparataquandoarriva il-momento-di, sviluppato con maniacale reiterazione da Shining, Bella pedalata per la city senza firma né altro, solo l’esitante affermazione materializzata su un livello più vero di parole. I retroscena esistono.

Incastro la nota nel sottosella della tua bici rossa e, a meno che non se la lleve el viento, sappiamo entrambi che scripta manent.

Un’arma a doppio taglio.

Lo so, non c’è alcuna domanda esplicita.

Eppure già sento che mi devi una reazione.

Per un attimo sono quasi orgogliosa del mio gesto. Un attimo dopo, mentre pedalo a ritroso sulla 9 de Julio, mi assale un’immagine bizzarra del coniglio bianco, il Bianconiglio, una volta infilatosi nel tunnel del Paese delle Meraviglie. “E’ tardi! E’ tardi!” ripeteva ad Alice guardando il suo orologio da tasca. E’ tardi.

Passiamo intere ore, intere giornate e a volte intere vite preparandoci ad affrontarlo, vogliamo essere pronti per quando arriverà il-momento-di, ma siamo sicuri che quel momento lo sapremo riconoscere?

Bella pedalata, comunque.

martes, 11 de agosto de 2009

Le gustaría dibujar ciertas ideas, pero es incapaz de hacerlo. (…) Proyecta uno de los muchos finales de su libro inconcluso y deja una maqueta. La pagina contiene una sola frase “En el fondo sabia que no se podía ir mas allá porque no lo hay.” La frase se repite a lo largo de toda la pagina, dando la impresión de un muro, de un impedimento. No hay puntos ni comas ni márgenes. De hecho un muro de palabras ilustrando el sentido de la frase, el choque contra una barrera detrás de la cual no hay nada. Pero hacia abajo, a la derecha, en una de las frases falta la palabra lo. Un ojo sensible descubre el hueco entre los ladrillos, una luz que pasa.

Julio Cortázar, Rayuela

lunes, 10 de agosto de 2009

In un giorno imprecisato della settimana scorsa ho inforcato la mia due ruote in direzione BP, hotel in chiusura che –si mormora- abbia avuto un ruolo importante nella diffusione dell’arte contemporanea locale. Ogni stanza era occupata da un artista, opere opere opere ovunque e non tutte di gran livello, anzi, ma decisi di non farmi trascinare dalla severità del mio giudizio e, per una volta, godere dell’esperienza senza bramare la trascendenza.

Stanza 301. Così, un po’ disperatamente, afferrai una delle collane di ferro aggrappate al muro, cerchi di metallo con un filo arrotolato, ognuna delle quali rappresentava un addio da legare in un punto arbitrario della stanza e srotolare abbandonandolo. Scegliere il proprio addio. Cosa abbandonare? La mia biografia mi ricorda che non ho grandi problemi col desprendimiento, se così non fosse forse non sarei dove sono, perciò mi devo inventare qualcosa per poi poter legare il mio filo e fingere di abbandonarla. No me querìa travar en tu despedida, lo giuro, ma è successo, mi sono impigliata con il collo nella stufa, improvvisando un tentativo di suicidio mentre cercavo di esigermi qualcosa originale. Lì, dal profondo del pavimento, ebbi una piccola illuminazione. Quella despedida, ormai diventata un cappio al collo, era un monito al portare la propria mediocrità con stile anziché esigersi un’originalità di cui non si è capaci.

Esigere stile dalla propria mediocrità qué carajo forse è questo il genere d’illuminazioni di cui l’arte è medium, non il sublime, non la trascendenza, ma un istante di piena coscienza del nostro limite fisico e non, che ci attanaglia mentre srotoliamo un improbabile filo dell’addio salutando il nulla pur essendo a 15.000 km di distanza dal luogo che abbiamo sempre chiamato casa.

Tu mi salvasti dal mio involontario suicidio improvvisato, non senza lasciarti sfuggire il sommesso e sospirato ah, Vanina… degno di un padre pretenzioso che scuote la testa di fronte all’ennesima cappella di una figlia senza speranze, snodando, slegando, sgomitolando, e intanto sfiorandomi involontariamente (o forse no) il viso (spero di no), ed io sono vulnerabile adesso e le tue dita che corrono sul mio addio (voglio credere che sia no), e il vento che si alza al tuo respiro e l’arte e…

Stanza 302. Liberata, trovai rifugio nelle relazioni pubbliche e in un fragolosissimo daiquiri che annientò la me lucida per buona parte della serata. Un’amica proiettava un loop permanente di fotografie e la mondanità artistica locale scorreva sotto i nostri occhi mentre ce ne stavamo seduti per terra ad osservare ed osservarci, a ridere e commentare. Era di qualche settimana fa quella foto, scattata durante l’ennesima inaugurazione in cui tu-versione-dj passavi una minimal che sopportavo a stento. Io: le mani in tasca, un malcelato imbarazzo ed una familiare curvatura verso il suolo, e tu che mi parlavi dall’alto del tuo gradino immaginario, forse mi guardavi con il volto semicoperto dalle cuffie, perfetto fermo-immagine della ragazzina insipida che va a rompere i coglioni al dj figo per dirla prosaicamente, le nostre figure olografiche proiettate sulla parete come una (mia) fantasia a grandezza naturale impressa sul muro con la luce, un perfetto incubo sociale in scala 1:1, e quando ciò successe tutti (tutti) annientarono il mio camaleontico desiderio di scomparire improvvisando un ooooooo degno dei miei nebulosi ricordi di prima elementare, un ooooooo manifesto come il mio sguardo nella foto, mentre la me reale desiderava inabissarsi in quella vocale o nell’ologramma ma perlomeno – e almeno per un attimo - smettere d’esistere.

Stanza 303. Riprendo fiato sul letto, satura dell’arte, o – più realisticamente - satura di me soltanto. All’altezza dei miei occhi pende una scarpa da ginnastica appesa a un filo azzurro che pende da un cerchio di ferro sformato, che pende da un filo, che pende da un bastoncino del gelato, che pende da un filo che pende dal soffitto, cui pende un filo appeso ad una spugna cui pende un filo collegato a una bottiglia, poi all’armadio e così via, forse si estenderebbe all’infinito se ci fosse infinito spazio e infinito tempo per. E’ autentico caos. Non capisco, non oso azzardare una possibile interpretazione, guardo quel sistema e non ci credo, ma non so a cosa non credere, non so cosa ci sia da capire, forse non credo che tutto possa stare in piedi con quella fragile e disordinata impalcatura di fili colorati, forse è la mia solita ostinazione nel voler capire anche ciò che non intende spiegarsi, e gli oggetti? Qual è la relazione tra quegli oggetti? Non lo so, non capisco e non credo ma so che voglio capire e se non tocco non credo, quindi tocco, sfioro la scarpa e tutto (tutto) inizia a sbilanciarsi, muoversi sinergicamente e solo la stanza sembra conservare il suo immobilismo, ma curiosamente uno non se lo aspetta, anzi, presto ti assale il dubbio che quell’inerzia sia soltanto un livello più insondabile del caos di cui sopra. Tutto oscilla, si culla fuori e dentro, lentamente ritrova il suo naturale equilibrio e poi si ferma, eppure qualcosa è cambiato, almeno dal punto di vista plastico, nulla è più esattamente come prima. Ogni minima intrusione genera cambiamenti irreversibili, anche ciò che è più distante si muove in un unico e sinergico respiro come parte di uno stesso organismo, che forse a sua volta è parte di un sistema più vasto, il cui movimento si è fermato solo in apparenza, mentre in realtà continua ad espandersi e contagiare altro, lo dimostra il mio gesto, l’aver continuato a pensarlo e poi scriverlo, pubblicarlo, e forse qualcuno lo leggerà, magari lo racconterà risignificandolo ad libitum, ad infinitum.

Una maligna voce dentro mi urla di aprire gli occhi, che probabilmente manco sapevi cosa stessi facendo, ma credo sia un moribondo orgoglio che parla, così mi faccio coraggio e t’invito nel mio living mentale, per mostrarti la tua opera attraverso i miei occhi.

Ti dipinsi quest’altra fotografia quasi a memoria, stavolta lo meritavi davvero per averci mostrato l’infinito e quella percezione quasi fisica di abitare l’universo in espansione usando una scarpa da ginnastica e un bastoncino del gelato, e benché sentissi nascere dentro di me la rotonda sensazione di un errore che si consuma, decisi di ignorarla e continuai come un caterpillar, mentre mi davi le spalle e scrivevi i tuoi addii con il nastro adesivo su una porta chiusa. Sorrisi, ancora una volta, e non dissi nulla se non un adios con lo scotch sul vetro, ed io me ne andai, era il mio momento (o non lo era più ed era quindi ancor più giusto andarsene).

Algo esta pasando, ma tutto si muove così lentamente… Se avessi un tempo infinito a disposizione potrebbero (anzi, dovrebbero) mescolarsi infinite probabilità e poi ripetersi e ripetersi di nuovo, perché c’è qualcosa di ancora indistinguibile intorno, qualcosa che forse è tensione, elettricità, attesa, domanda, dubbio, e l’unica cosa che ha senso fare ora è sedersi ad aspettare che la potenza diventi atto o ripieghi su se stessa scomparendo.

Ricomincio dal marciapiede, il mio rituale zaino-chiavi-catena-bici-ipod-fanale ma l’ultimo anello non funziona, un anno intero mi scivola addosso mentre sistemo la mia luce senza risultati, e mentre sono in ginocchio sull’asfalto sento un gracias por el cumplido dietro di me e tu compari con nastro adesivo alla mano e la tua telegrafica risposta con una mezzora buona di delay.

Sembra una condanna morfologica quella che mi coglie sempre sul gradino inferiore o inginocchiata sul cemento, a guardarti dal basso e dal basso esistere, dal basso scegliere di esistere.

Con il nastro dei tuoi addii leghi la luce alla mia bici, attacchi questo spillo col tuo nome immaginario impresso e lo sento pesare come una foto nel portafogli o un anello al dito, eppure oggi - ad una settimana di distanza - il suo legittimo gancio è ancora abbandonato sul mio comodino e quella tua fotografia astratta lì a far luce alla mia strada ovunque vada.

Algo esta pasando.

Se solo avessi infinito tempo a disposizione.

jueves, 6 de agosto de 2009

la necedad juvenil













Ieri notte decisi di consultare l'I-Ching, questo dopo aver insultato tutti i miei conoscenti che vi ricorrono con frequenza per capire come interpretare decisioni e annessi. Non c'è niente di magico, credo, sempre che non vogliamo considerare tale quel potente grado di lucidità autoindotta nel dare un senso a strofe così semanticamente sconfinate e metaforiche. Pur vergognandomi profondamente, posi una domanda che ti riguardava, vagamente, vagamente perchè non volevo ammettere a me stessa cosa stessi chiedendo, ma dentro di me quel punto interrogativo era così nitido che avrei potuto ricostruire l'intera geografia del suo percorso logico ed emozionale.
Tirai le tre monete sei volte.
Esagramma risultante:
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L'immaturità giovanile, altrimenti detto l'ignoranza fanciullesca.
Fuck.

||| Pedalo instancabilmente ascoltando i Santogold senza capire bene perchè mi piacciano (per giunta vergognandomene abbastanza), schivo bondi assassini e taxi senza mani, a volte imbambolandomi a fissare il sole sempiterno di Buenos Aires, ed ecco che briciole di quella dolorosa sensazione che chiamiamo felicità mi assalgono così, e non so bene cosa farmene, lì sul cemento liscio, le due ruote senza mani, completamente alienata dalla musica, distante anni luce dagli insulti dei taxisti e dalle grida oscene dei muratori che mi osservano passare dalle altezze vertiginose delle loro precarie e pericolosissime impalcature, non so bene cosa farmene, mi acchiappa così e non mi sento mai abbastanza preparata, ma ha poi senso esserlo? E non so dove infilarla quella sensazione, le ruote, i raggi, la strada, i Santogold, sento che non c'è posto per compiacersene e mi rende triste, l'amarezza di queste istantanee di felicità che si dissolvono sull'asfalto, la loro dolcezza, mi amareggia terribilmente|||

Ti dipinsi quella fotografia con le parole, quasi a memoria, e mi guardasti negli occhi, credo per la prima volta in due anni (e lì – lì nel puro smarrimento – li ho trovati un pò grigi, un pò verdi, un pò indefiniti ma troppo glaciali per continuare a indagare) e mi aspettavo un sorriso o uno sguardo compiacente a validare il mio pittoresco sforzo di farmi capire in questo caos di lingue e codici e sensazioni che si accumulano e deteriorano e fossilizzano con troppa fretta per poter essere ricordati. Invece distolsi lo sguardo e -senza sorridere- sussurrasti qué pendeja, e quell'etichetta la potevo a malapena distinguere tra la mia immaginazione e le sue aspettative, i clacson sovrapposti e le nuvole nere del microcentro porteno, eppure continuò a rimbalzare nel mio cervello per le due cuadras successive, qué pendeja, due isolati di silenzio e rumore in cui attivare una modalità riccio e scomparire, qué pendeja, e poi abbandonarti alla fermata dell'autobus e sgommare via esattamente come nella foto di cui sopra.

Pendeja, pensavo pedalando, e non riesco a riesumare una traduzione degna nella mia lingua (pischella, forse?) se non il giro di parole di una bambina un pò incosciente e naive, un composto di innocenza e stupidità, di immaturità giovanile e fanciullesca ignoranza e...un momento...
Fuck.

La soledad non è mai così potente quando non c'è nessuno intorno, è come se si amplificasse quando è solo una sensazione che ci abita la testa più che un'evidenza che (non) ci circonda. Forse è per questa ragione che le piste da ballo spesso si trasformano in luoghi di pura solitudine da sublimare in luci intermittenti, musica che annulla l'ascolto dei propri pensieri e magari un bicchiere di orrendo fernet con cola a dare l'estrema unzione al tutto.
Forse un sabato (ora che non ho più un orario d'ufficio, i giorni e le date si mischiano con irrimediabile confusione), diciamo un sabato passato, ballavo su una pista piena di ricordi e ogni ricordo si muoveva sull'elettronica dei Djs Pareja, restando intrappolato nella sua piccola porzione di pavimento, e c'era questa rete che pendeva su di noi, questa rete sulle nostre teste fatta di corde bianche e nodi e figure asimmetriche e scomposte, e noi le afferravamo, ci ingarbugliavamo, ci sacrificavamo dentro. A volte qualcuno si muoveva con troppa fretta, si impigliava, a volte qualcun'altro tirava il nodo sbagliato e la figura scompariva, e tu lì nel mezzo, il tuo corpo stritolato da un poligono di corda bianca su una pista da ballo, con il mondo intorno che ride e chiude gli occhi sulla musica, si muove, e poi a volte si dissolve. Non lo sapevo in quel momento, non sapevo di star vivendo dentro un'immagine così evocativa e metaforica nel suo frenetico fluire, ma ripensandoci adesso mi piacerebbe averla filmata e poterla mandare in loop a rallenty, senza alcun rumore, proiettarla in una stanza vuota nel più completo buio e silenzio, la pista e il movimento, le corde bianche, i nodi e la prigionia, io legata in una forma senza nome e tu lì vicino, in una vicinanza così impenetrabile da non essere quasi più parte di quella metafora, scivolando fuori da essa e dalle sue figure astratte in cui era chiaro che non ci fosse nessuna corda da toccare e nessun nodo da stringere per calamitarti e averti nella mia porzione di pista, per cannibalizzare i tuoi pensieri urlandoti nel cervello il discorso del tempo e poi voler morire per averlo fatto. Mi sta bene così in fondo, chiudo gli occhi e godo delle involontarie vibrazioni dello sterno sui bassi, quel familiare e corporeo brivido che accompagna la solita sensazione di pura solitudine tra la folla.
A volte mi domando se dovrei fare qualcosa per diradare o almeno ostacolare la mia evidente tendenza all'ossessione. E' ufficiale, sono una persona ossessiva (ossessionante, ossessionata, ossessa con tutti i suffissi potenzialmente applicabili). E' uno stato preoccupante ma, poichè mi accompagna da sempre, nel tempo l'ho normalizzato fino a farlo diventare un corollario qualunque del mio agire sociopatico e complessato, una di quelle componenti del pacchetto che decisamente non somiglia all'immagine idealizzata che ho di me, e perciò tendo a nasconderlo, esattamente come si fa quando ci stanno per scattare una foto e tratteniamo la pancia quasi soffocandoci, eppure – nonostante gli sforzi investiti nelle migliorie plastiche – la fotografia finisce sempre col tradire qualcosa di noi, qualche scomoda essenza che non avevamo considerato e che non ci rappresenta come vorremmo, che forse in fondo non ci appartiene per davvero o almeno questo preferiamo credere.
Ma oggi mi vedo meglio, con tutti i nonostante annessi, specchiofilia inspiegabile data l'insonnia che ha sbranato le mie 6 ore di sonno, passate a rotolarmi nel letto appallottolando le lenzuola (odio che si appallottolino le lenzuola) con un'attività onirica fastidiosa e una sveglia disperata, un'agenda programmata dalla sua culla alla sua tomba, cuelgue di intenet e piena paralisi di fronte allo schermo del computer, colazione con cereali e facebook, update dell'i-pod con la nuova musica piratata durante la notte, biciclettata fino alla galleria medievalcomtemporanea in cui lavoro e sei ore seduta su questa sedia a putrefare i miei pensieri (ossessivi) e le mie sensazioni (idem).
Se potessi autodiagnosticarmi le piaghe da decubito della mente, avrei inventato la mia perfetta patologia.

jueves, 16 de julio de 2009

Ascolto Riow Arai & Tujiko Noriko, gruppo giap, lei canta i can not play music i can not play music e mi domando se sia come dichiarare che ceci n'est pas une pipe, magrittianamente parlando, e con tutto questo surrealismo intorno è normale che mi assalga un dubbio.
Io non sto scrivendo.
Ma io non sono Magritte né Tujiko, dopotutto, e come la maggior parte di voi compio uno sforzo costante per galleggiare in questo doloroso oceano di mediocrità autoindotta, in cui tutte le ambizioni penzolano confuse come la carota davanti agli occhi del mulo.
Irraggiungibili.
Per antonomasia.
Una carota utopistica che marcisce di fronte agli occhi di un mulo surreale che muore di fame, ma non importa.
Forse la carota semplicemente non esiste.
Peut être c'est même pas une carotte.