martes, 20 de octubre de 2009

polvere













Emi solleva la testa, mi punta gli occhi contro e scuote bruscamente quella fitta palla di riccioli che si trova addosso per levarseli dal volto. Andre le ha appena rasato mezza testa e in controluce vedo una nuvola di polvere sottile ondeggiare nell’aria, seguendo i suoi movimenti. “Vuoi provare?” mi chiede. Non so se lo voglio. Ho appena premuto play su un disco di Autechre e si profila una notte davvero molto lunga, che m’incita a trasgredire le mie stesse regole, decisioni autoimposte anni prima con solida convinzione e argomenti che ora non riesco a ricordare. E’ sorprendente come nulla resista al tempo, nemmeno le più solide certezze, sempre ammesso che abbia senso credere in questo nome, e mentre passeggio lo sguardo sullo schermo del computer continuo a non rispondere. Forse non dovremmo fidarci del lungo termine perché è evidente che non esistiamo, lì dentro. “Allora, provi o no?” la sua impazienza è sempre maggiore ma cerco di non farci caso, di rifugiare questa momentanea indecisione nei bassi della minimal che riempie l’aria intorno. Lei mi guarda, aspetta che questo mio blackout si esaurisca, che una qualunque reazione prenda consistenza, e fa un po’ sorridere quella sua posa da bambina in attesa frenetica, gli occhi a palla mentre una me-sorella-maggiore decide se comprarle o no lo zucchero filato e cambiarle l’umore in un baleno. Lo specchietto quadrato su cui si sdoppiano le cinque strisce bianche gliel’ha regalato la madre alcuni anni fa, e a modo suo è un’immagine dolce perché sono quasi certa che Emi non abbia alba di come si disegni una linea di eyeliner sulle palpebre, forse non l’ha nemmeno mai fatto nel decennio che seguì le scuole superiori, quando era seminecessario e cool uniformarsi anche al bisogno di trasgredire. Posa lo specchietto e si alza bruscamente, stringe il mezzo Windsor della sua cravatta viola ed è perfetto, dopo tutte quelle ore di formazione davanti ai video di youtube alla ricerca del non plus ultra plastico del nodo, si rimbocca le maniche della camicia bianca da uomo piccolo e solleva i jeans chiari che le cadono lungo i fianchi stretti. Poi torna a sedersi e mi rivolge la stessa domanda, di nuovo. I bassi vibrano nei nostri sterni mentre l’eco delle sue ultime sillabe resta sospeso nel vuoto lasciato dalla musica, una melodia minore che si dissolve ad libitum tra l’armadio a cascata e le montagne di libri e vestiti disseminati sul pavimento, i cd scoperchiati, i nostri occhi che s’incrociano per un breve momento nel riflesso dello specchio tra le strisce e un istante di decisivo silenzio nell’attimo in cui termina il disco di Autechre. Non ho aperto bocca, ma Emi ha capito. Sorride beffarda, poi si pente e rettifica, rovescia la sua risata in una smorfia di tristezza e delusione fasulle poiché dovrà dimezzare il suo divertimento se intende condividerlo, ma taglia comunque un altro pezzetto della cannuccia che aveva tanto insistito per farsi regalare nell’ultimo bar, ore prima. Andre si sta facendo la doccia per levarsi di dosso la polvere dei suoi riccioli neri. Se n’è andato in mutande lasciandoci sole nella stanza, gridando dall’interminabile corridoio che avrebbe finito in cinque minuti. E’ passata almeno un’ora, credo, e forse non hanno più senso le lancette come riferimento stabile, ora che misuriamo il tempo in dischi e sigarette, esercizi di stile e vuoti a rendere di Quilmes che si accumulano in file disordinate sul pavimento di legno. Andre non sospetta che Emi. Andre non sospetta che io, soprattutto. Ho quasi dimenticato il mio sì quando mi porge la piccola cannuccia di plastica e lo rende reale, ricordandomi che c’è una conseguenza diretta per ogni risposta che tiriamo nel mondo superficialmente, che disegna timidamente i contorni di un futuro immediato seguendo uno solo degli infiniti percorsi possibili, una verità che ci definisce in quel momento soltanto, perché in quello dopo siamo semplicemente altro e, nonostante questo, tutto quel che segue dipende direttamente da ogni decisione che l’ha preceduto, come una goccia d’acqua che genera splendidi cerchi concentrici senza averlo deciso prima di cadere. Smettila cazzo che la vita è più semplice, mi dice spesso, nei momenti in cui il suo proverbiale autismo lascia spazio alla versione di lei che preferisco, ma entrambe sappiamo che mente, così m’infilo quella cosa plasticosa nel naso e osservo le briciole bianche scomparire rapide, aspirate da un enorme buco nero inciso nel mio riflesso, poi la striscia si esaurisce, resta soltanto una piccola costellazione di puntini raddoppiati dallo specchio e mi allontano, ingoio saliva e stelle finché la gola si anestetizza in una gommapiuma morbida e amarognola, in una normalità più lucida e concreta.