miércoles, 19 de agosto de 2009

dos incomunicados














A volte dimentico che questa è l’America Latina. A volte mi sento un po’ troppo disinvolta mentre cammino per le strade della Capital Federal senza guardarmi intorno, senza più spalancare gli occhi di fronte ai cartoneros e la miseria, normalizzando il set e in fondo assolvendo involontariamente il male con la mia endemica superficialità da classe media. A volte aspetto le 2 am per uscire di casa e camminare chilometri con la musica nelle orecchie, alienata da tutto, in direzione El Especial, piccolo bar clandestino che ospita interessanti feste da qualche settimana e che presumibilmente tra qualche settimana avremo già rimosso. A volte mi dimentico di vivere in Argentina (sarebbe diverso altrove? Forse, ma in ogni metropoli la storia si ripete) e m’intrappolo in un sottopassaggio, camminando veloce ma non abbastanza da evitare l’improvviso disegnarsi di un’altra ombra sulla parete bianca al mio fianco. I suoi contorni mi riesumano da un denso torpore musicale, come una violenta sveglia che ci catapulta fuori dalle lenzuola allo scadere della quarta ora di sonno, rapid eye movements arrestati e un sogno interrotto prima che possiamo immaginarne la fine, svegliati Vani, despabilate, riemergi dal tuo melodico buco nero e ricorda che questa è Buenos Aires, non la vecchia palude mantovana, apri gli occhi e preoccupati perché ti stanno aggredendo. Mi volto all’improvviso e un signore sulla quarantina (o sulla trentina portata pessimamente) si cimenta nel puntarmi meticolosamente una bottiglia rotta al volto, abbastanza vicino da impedirmi di guardarlo negli occhi e dedurre la serietà delle sue intenzioni. Devo addirittura spegnere la musica per ascoltarlo, i Quintorigo mi urlano nelle orecchie un messianico “…e poi fuggire” mentre il rumore del vetro in frantumi si mescola con gli archi e la polvere. “Dame el celular o te corto la cara”, mi disse, quasi strappandomi un sorriso. Se me l’avesse detto in italiano, “ti taglio la faccia”, mi sarei terrorizzata (brrr, ho i brividi solo a pensarlo), ma in castellano queste minacce hanno sempre un non so che di grazioso e purtroppo non riesco mai a prenderle sul serio. Immagino me ne pentirò il giorno in cui mi succederà qualcosa per davvero ma, fino ad allora, continuerò a prendermi un momento per riflettere prima di regalare a un estraneo i miei averi, senza contare che ciò che mi chiedeva, il cellulare, era sepolto in qualche profondo angolo del mio zaino stracolmo e avrei davvero dovuto svuotarlo sulla strada per trovarlo. Così, in un suo decisivo momento di distrazione, diedi retta ai Quintorigo e iniziai a correre sulle mie efficientissime gambe da ciclista full time, correre e correre ancora fino a smaltire l’adrenalina su tre chilometri di strada e poi rendermi conto che non aveva più senso prendere un taxi perché praticamente ero già arrivata.

Così, sudata e adrenalinica, sola e anticool, le calze completamente smagliate dalla corsa e un’apparizione anticipata nella notte porteña, arrivai a El Especial. Il tuo volto fu il primo che intravidi in fondo alle scale, con quella rugginosa barbina spelacchiata, un new look da hippy postmoderno e la fascia fluorescente tra i capelli semilunghi. Spettinato, pensai. Trasandato, corressi. Descuidado, tradussi, e la pista era vuota e non c’era modo di evitare una parola, un’occhiata, una vicinanza qualsiasi, ma continuai a mentirmi accumulando sinonimi in varie lingue finché non ti avvicinasti un po’ ballando un po’ ballonzolando, e allora cercai di recuperare la calma post-aggressione salutandoti con poca enfasi, forzando un sorriso, un abbraccio a maglie larghe e un hola urlato all’orecchio per coprire i 200 decibel di minimal techno intorno.

Bella pedalata per la city, ricordi? Mi devi ancora una reazione ma io non so aspettare e ho già un gomitolo di risentimento cautelare legato alle dita. La tua mano sul mio braccio passeggiò distratta in un movimento che tanto somigliava a una carezza, mentre mi chiedevi se mi sentivo ancora spaventata per l’aggressione, se andava tutto bene, io annuivo meccanicamente, ma l’adrenalina che mi aveva trascinato di corsa dall’oscura via alla festa ora sembrava solo un beato preambolo.

Nelle due ore seguenti feci il miracolo: imposi al mio cervello un corto circuito per evitare di fare quello che faccio sempre in questi casi, ovvero iniziare a dipendere da quel vitale rigor mortis e soprattutto dall’attesa, iniziare a dipendere dall’attesa che qualcosa accada mentre qualcosa è appena accaduto, e la notte si colori di aneddoti da raccontare alla carta, avida di subliminale come sono, da ripescare nelle tediose domeniche di solitudine e resaca e mandare in loop nel cervello come un placebo. Il loop, che pericolo. La dipendenza dall’attesa, dalla pura potenzialità. Balla balla e piensa, balla piensa e guarda fora, ballare ma essere altrove, o semplicemente non essere, stare in pura sospensione tra due attese insistendo con lo sguardo in quella direzione, elemosinando una parola, un incrociarsi di sguardi, di vite che ammetta che algo esta pasando, che qualcosa sta davvero accadendo e poi, inevitabilmente, accorgersi che non succede proprio niente.

L‘intensità con cui aspettiamo qualcosa è inversamente proporzionale alle probabilità del suo verificarsi - Murphy docet – e forse quella che chiamiamo Realtà non è altro che un Bignami dell’immaginazione.

Perciò ho ballato, osservato i bassi vibrare nel mio bicchiere di screwdriver e infilato l’attenzione in ogni dettaglio infinitesimale della pista, come m’insegnò Cortazar, scegliere un particolare qualunque purché insulso e perdersi lì dentro, lì dentro essere. Penso quindi sono. Pensare l’ossessione, ergo, non aiuta la calma a esistere.

La festa raggiunse il suo picco massimo, preludio di un inevitabile declino, così presi lo zaino e me ne andai. Era la mia firma, sparire sempre un istante prima dello shift verso la mattina e le crudeli luci al neon a svelare con violenza i resti della notte sui nostri volti. Diedi il mio addio serale ai neoamici di turno (con la coda dell’occhio ti vedevo infilarti nella tua giacca flower power) e mi allontanai verso l’uscita (eri dietro di me, per quanto ancora fingeremo il nulla?).

“Hey, ciao”, improvvisai con finta e malcelata sorpresa. Ci salutammo di nuovo con un abbraccio gemello della notte di Sendròs, quella in cui assassinai ogni eventuale sequel con un gesto che all’improvviso mi sembra così anticontemporaneo, Vani in diretta dal secolo decimo nono seminando letterine sulle bici di sconosciuti.

“Ti va di camminare?”, mi chiese e se ne andò senza aspettare la risposta, che forse era già incorporata in qualche cavillo semantico della domanda. Ormai non ho più vergogna da provare, ho come l’impressione di averla già vissuta tutta, ho alzato un muro intorno a questa sensazione, perciò riesco tranquillamente a fingere che nulla sia mai successo quando ci avviamo verso casa (ognuno verso la sua casa) fianco a fianco e il silenzio della città che dorme definisce all’improvviso il nostro dialogo.

“E’ stata davvero una bella pedalata, l’altro giorno” mi dicesti, lento e lapidario, lapidandomi con le parole lentamente e confessandomi il piacere di trovarlo e leggerlo, poi il silenzio e resistere e in fondo distinguere chiaramente un no in risposta a una domanda che non ho mai posto, un no zuccherato, mimetizzato tra elogi e ringraziamenti, un no argentino forse, un no che mi fai bere da un bicchiere cosparso di miele lungo i bordi ma pur sempre un no.

Et voilà, ecco la reazione che bramavo, come me la racconterò adesso per poterci credere di nuovo?

Mi abbracci ancora, il paradosso di quella stretta rende il tuo no davvero categorico, una bella pedalata, forse, ma questa è la realtà reale, pura negazione, e mi sussurra all’orecchio che posso solo concedermi alcuni istanti di fantasia letteraria in solitudine, da consumare nei tuoi abbracci terminali per poi stirarli all’infinito.

Come un placebo.

Il loop, che pericolo.