lunes, 10 de agosto de 2009

In un giorno imprecisato della settimana scorsa ho inforcato la mia due ruote in direzione BP, hotel in chiusura che –si mormora- abbia avuto un ruolo importante nella diffusione dell’arte contemporanea locale. Ogni stanza era occupata da un artista, opere opere opere ovunque e non tutte di gran livello, anzi, ma decisi di non farmi trascinare dalla severità del mio giudizio e, per una volta, godere dell’esperienza senza bramare la trascendenza.

Stanza 301. Così, un po’ disperatamente, afferrai una delle collane di ferro aggrappate al muro, cerchi di metallo con un filo arrotolato, ognuna delle quali rappresentava un addio da legare in un punto arbitrario della stanza e srotolare abbandonandolo. Scegliere il proprio addio. Cosa abbandonare? La mia biografia mi ricorda che non ho grandi problemi col desprendimiento, se così non fosse forse non sarei dove sono, perciò mi devo inventare qualcosa per poi poter legare il mio filo e fingere di abbandonarla. No me querìa travar en tu despedida, lo giuro, ma è successo, mi sono impigliata con il collo nella stufa, improvvisando un tentativo di suicidio mentre cercavo di esigermi qualcosa originale. Lì, dal profondo del pavimento, ebbi una piccola illuminazione. Quella despedida, ormai diventata un cappio al collo, era un monito al portare la propria mediocrità con stile anziché esigersi un’originalità di cui non si è capaci.

Esigere stile dalla propria mediocrità qué carajo forse è questo il genere d’illuminazioni di cui l’arte è medium, non il sublime, non la trascendenza, ma un istante di piena coscienza del nostro limite fisico e non, che ci attanaglia mentre srotoliamo un improbabile filo dell’addio salutando il nulla pur essendo a 15.000 km di distanza dal luogo che abbiamo sempre chiamato casa.

Tu mi salvasti dal mio involontario suicidio improvvisato, non senza lasciarti sfuggire il sommesso e sospirato ah, Vanina… degno di un padre pretenzioso che scuote la testa di fronte all’ennesima cappella di una figlia senza speranze, snodando, slegando, sgomitolando, e intanto sfiorandomi involontariamente (o forse no) il viso (spero di no), ed io sono vulnerabile adesso e le tue dita che corrono sul mio addio (voglio credere che sia no), e il vento che si alza al tuo respiro e l’arte e…

Stanza 302. Liberata, trovai rifugio nelle relazioni pubbliche e in un fragolosissimo daiquiri che annientò la me lucida per buona parte della serata. Un’amica proiettava un loop permanente di fotografie e la mondanità artistica locale scorreva sotto i nostri occhi mentre ce ne stavamo seduti per terra ad osservare ed osservarci, a ridere e commentare. Era di qualche settimana fa quella foto, scattata durante l’ennesima inaugurazione in cui tu-versione-dj passavi una minimal che sopportavo a stento. Io: le mani in tasca, un malcelato imbarazzo ed una familiare curvatura verso il suolo, e tu che mi parlavi dall’alto del tuo gradino immaginario, forse mi guardavi con il volto semicoperto dalle cuffie, perfetto fermo-immagine della ragazzina insipida che va a rompere i coglioni al dj figo per dirla prosaicamente, le nostre figure olografiche proiettate sulla parete come una (mia) fantasia a grandezza naturale impressa sul muro con la luce, un perfetto incubo sociale in scala 1:1, e quando ciò successe tutti (tutti) annientarono il mio camaleontico desiderio di scomparire improvvisando un ooooooo degno dei miei nebulosi ricordi di prima elementare, un ooooooo manifesto come il mio sguardo nella foto, mentre la me reale desiderava inabissarsi in quella vocale o nell’ologramma ma perlomeno – e almeno per un attimo - smettere d’esistere.

Stanza 303. Riprendo fiato sul letto, satura dell’arte, o – più realisticamente - satura di me soltanto. All’altezza dei miei occhi pende una scarpa da ginnastica appesa a un filo azzurro che pende da un cerchio di ferro sformato, che pende da un filo, che pende da un bastoncino del gelato, che pende da un filo che pende dal soffitto, cui pende un filo appeso ad una spugna cui pende un filo collegato a una bottiglia, poi all’armadio e così via, forse si estenderebbe all’infinito se ci fosse infinito spazio e infinito tempo per. E’ autentico caos. Non capisco, non oso azzardare una possibile interpretazione, guardo quel sistema e non ci credo, ma non so a cosa non credere, non so cosa ci sia da capire, forse non credo che tutto possa stare in piedi con quella fragile e disordinata impalcatura di fili colorati, forse è la mia solita ostinazione nel voler capire anche ciò che non intende spiegarsi, e gli oggetti? Qual è la relazione tra quegli oggetti? Non lo so, non capisco e non credo ma so che voglio capire e se non tocco non credo, quindi tocco, sfioro la scarpa e tutto (tutto) inizia a sbilanciarsi, muoversi sinergicamente e solo la stanza sembra conservare il suo immobilismo, ma curiosamente uno non se lo aspetta, anzi, presto ti assale il dubbio che quell’inerzia sia soltanto un livello più insondabile del caos di cui sopra. Tutto oscilla, si culla fuori e dentro, lentamente ritrova il suo naturale equilibrio e poi si ferma, eppure qualcosa è cambiato, almeno dal punto di vista plastico, nulla è più esattamente come prima. Ogni minima intrusione genera cambiamenti irreversibili, anche ciò che è più distante si muove in un unico e sinergico respiro come parte di uno stesso organismo, che forse a sua volta è parte di un sistema più vasto, il cui movimento si è fermato solo in apparenza, mentre in realtà continua ad espandersi e contagiare altro, lo dimostra il mio gesto, l’aver continuato a pensarlo e poi scriverlo, pubblicarlo, e forse qualcuno lo leggerà, magari lo racconterà risignificandolo ad libitum, ad infinitum.

Una maligna voce dentro mi urla di aprire gli occhi, che probabilmente manco sapevi cosa stessi facendo, ma credo sia un moribondo orgoglio che parla, così mi faccio coraggio e t’invito nel mio living mentale, per mostrarti la tua opera attraverso i miei occhi.

Ti dipinsi quest’altra fotografia quasi a memoria, stavolta lo meritavi davvero per averci mostrato l’infinito e quella percezione quasi fisica di abitare l’universo in espansione usando una scarpa da ginnastica e un bastoncino del gelato, e benché sentissi nascere dentro di me la rotonda sensazione di un errore che si consuma, decisi di ignorarla e continuai come un caterpillar, mentre mi davi le spalle e scrivevi i tuoi addii con il nastro adesivo su una porta chiusa. Sorrisi, ancora una volta, e non dissi nulla se non un adios con lo scotch sul vetro, ed io me ne andai, era il mio momento (o non lo era più ed era quindi ancor più giusto andarsene).

Algo esta pasando, ma tutto si muove così lentamente… Se avessi un tempo infinito a disposizione potrebbero (anzi, dovrebbero) mescolarsi infinite probabilità e poi ripetersi e ripetersi di nuovo, perché c’è qualcosa di ancora indistinguibile intorno, qualcosa che forse è tensione, elettricità, attesa, domanda, dubbio, e l’unica cosa che ha senso fare ora è sedersi ad aspettare che la potenza diventi atto o ripieghi su se stessa scomparendo.

Ricomincio dal marciapiede, il mio rituale zaino-chiavi-catena-bici-ipod-fanale ma l’ultimo anello non funziona, un anno intero mi scivola addosso mentre sistemo la mia luce senza risultati, e mentre sono in ginocchio sull’asfalto sento un gracias por el cumplido dietro di me e tu compari con nastro adesivo alla mano e la tua telegrafica risposta con una mezzora buona di delay.

Sembra una condanna morfologica quella che mi coglie sempre sul gradino inferiore o inginocchiata sul cemento, a guardarti dal basso e dal basso esistere, dal basso scegliere di esistere.

Con il nastro dei tuoi addii leghi la luce alla mia bici, attacchi questo spillo col tuo nome immaginario impresso e lo sento pesare come una foto nel portafogli o un anello al dito, eppure oggi - ad una settimana di distanza - il suo legittimo gancio è ancora abbandonato sul mio comodino e quella tua fotografia astratta lì a far luce alla mia strada ovunque vada.

Algo esta pasando.

Se solo avessi infinito tempo a disposizione.